Rotastyle

11 settembre 2001
Interventi di: R. Balboni, G. Napoli, C. Galloni

New York, 11 settembre 2001: incubo collettivo.
Bologna, 14 settembre 2001: incubo individuale, il mio.


È notte, mi trovo nella metropolitana di Roma e ho appena acquistato il biglietto per il metrò che mi porterà non so esattamente dove.
Mentre sto per pagare, sento un frastuono assordante e istintivamente lo attribuisco all'arrivo del treno che frena sui binari incandescenti.


Ma non è il treno, le rotaie sono sgombre, ci sono poche persone in attesa del mio treno.
Ad un tratto vedo una squadra di poliziotti, saranno almeno una cinquantina, che marciano avanti e indietro e gridano qualcosa.
Uno di loro, probabilmente il capo squadra, sta impartendo delle istruzioni agli altri, purtroppo non scandisce bene le parole, o sono io che non riesco a distinguere chiaramente ciò che sta dicendo.

Sono disturbata dal trambusto ma non spaventata, comunque non dimentico che devo pagare, allora mi volto verso il vetro al di là del quale c'è il bigliettaio, o meglio c'era un attimo prima; adesso è accasciato, piegato su se stesso, di lui riesco a vedere soltanto la testa.
In quel preciso momento capisco che devo avere paura, mi assale un senso di angoscia perché non sapendo da dove viene il pericolo, non ho gli strumenti per mettermi in salvo.
Sono impietrita dal terrore. In un istante sento che qualcuno è alle mie spalle, mi mette una mano intorno al collo e mi punta una pistola alla tempia, gridando contro la polizia.
Sono parole minacciose, non sento la sua voce, è strano, riesco ad udire tutti i rumori circostanti, compresi i passi e le voci dei poliziotti, tuttavia non percepisco il suono della voce del mio aggressore che per me è ancora sconosciuto. Non posso neanche vedere il suo volto perché si trova alle mie spalle, non reagisco e aspetto inerme.
Ecco però che uno dei poliziotti della squadra grida: "Attenzione il talebano ha un ostaggio!". Adesso tutto mi è chiaro: la sorte che mi è toccata in sogno e l'effetto che gli avvenimenti di New York hanno avuto sul mio inconscio.

ROBERTA BALBONI




Il dolore e la sofferenza appartengono ai familiari, agli amici ed a coloro che sono stati vicini a tutte le persone morte l'undici settembre. Il così detto mondo occidentale si dichiara in lutto, ma fondamentalmente scopre di avere paura. Il benessere economico, la tecnologia avanzata e la forza militare che esprime non lo rendono più inviolabile.
L'altra faccia della stessa medaglia ha fatto prepotentemente irruzione e non sono più sufficienti alibi di buona coscienza travestiti da aiuti umanitari per comprendere che viviamo, tutti e tanti, sulla stessa terra sempre più piccola.
Quello che è crollato insieme alle torri gemelle di New York (non a caso si parla principalmente delle torri, non solo per il maggior numero di morti ma perché costituivano un simbolo della società del benessere, totem eretti verso il cielo) è l'ipocrisia quotidiana che permetteva di ignorare le ingiustizie ed i soprusi perpetuati ai danni della maggior parte della popolazione del pianeta.


Bambini in Asia che muoiono precocemente a causa dello sfruttamento del lavoro minorile del quale si arricchiscono alcune multinazionali, uomini e donne che soffrono e muoiono di Aids in Africa perché le case farmaceutiche non vogliono cedere i brevetti, popolazioni medio orientali che vivono di stenti per un lungo embargo voluto per il controllo del petrolio, mostruosi interessi sul debito estero che soffocano l'economia dei paesi sudamericani… a questo lungo elenco si aggiungono altri morti ed altri ancora se ne aggiungeranno….
Ma fino a quando? È questo il fertile humus che genera ogni forma di violenza e di reazione, spesso ancora più violenta.
La logica del profitto senza equa ripartizione rischia di non poter più reggere a lungo nel nuovo villaggio globale!

GENNARO NAPOLI



Credo di essere stata una delle prime persone in Italia a venire a conoscenza del disastro, grazie a un amico, allarmista quanto allarmante, che mi ha informato praticamente in tempo reale.
Ho cercato di portare a termine quelle piccole faccende di vita "normale" che stavo facendo e intanto pensavo alle cose più banali che temevo potessero subire variazioni, all'esame che avevo di lì a poco, alla lezione di danza che avrei avuto al pomeriggio, sulle prime ho pensato proprio al mio piccolo mondo. Poi sono riuscita a trovare un televisore.
Il magone era direttamente proporzionale alle immagini e all'incredulità relativa a queste. Ho chiamato gli amici più stretti, papà, gli zii e ho detto: "Ho diciotto anni. Ho paura che cambierà tutto, non voglio vedere la guerra".
La giornata è finita alle 21.30, mi sono addormentata sul divano guardando l'ennesimo notiziario. Mi sembrava di avere 10 anni di più e aver portato tutto il giorno un fardello pesantissimo sulle spalle.
La mattina dopo nel dormiveglia ero combattuta tra la speranza che non fosse successo niente e la necessità di andare ad ascoltare novità su quello che invece sapevo irrimediabilmente accaduto.


L'ansia già la si leggeva non solo sui giornali, ma sulla faccia della gente. La stessa che solo il pomeriggio prima per la strada guardava incuriosita i miei occhi lucidi non capendone il perché, il giorno dopo lo sapeva, eccome. E nei bar, in tv, per radio, si sentiva ogni tipo di commento, di supposizione.
Ma il 12 settembre era ancora troppo presto per fare della dietrologia, io ho preferito fermarmi sull'aspetto umano, che non doveva conoscere politiche, razzismi o antipatie. Oggi, a più di una settimana dall'evento, credo di avere in mano abbastanza elementi per assumere una mia posizione: a mente cinicamente più lucida, so che sono nodi venuti al pettine, che non si limiteranno al genocidio delle Twin Towers, e che non potranno essere sbrogliati con una guerra all'Afghanistan, non solo.
Allo stesso tempo, a livello emotivo, sento la paura di rivivere quelli che erano stati solo racconti dei nonni.

CHIARA GALLONI


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