- n. 3 - Maggio/Giugno 2023
- In libreria
Il malinteso della bellezza
Dai centri di bellezza alla tanatoestetica: un libro che affronta la questione estetica nella nostra società.
Da estetista ad antropologa e saggista: una svolta decisamente inconsueta quella che la vita professionale ha riservato a Sara Patrone, che dopo anni di cerette, epilazioni, rifacimenti di unghie e massaggi vari, si è laureata con lode presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Genova, discutendo una tesi in “Antropologia del corpo”.
Dalla sua esperienza pregressa e dagli studi compiuti è stato ora pubblicato
Il malinteso della bellezza - per una antropologia del corpo (edizioni Meltemi, in libreria dallo scorso mese di marzo), un testo che parla del
concetto di bellezza dal punto di vista antropologico, ossia indagando sui comportamenti individuali e sociali dell’essere umano. Un saggio che parte dal terreno a lei familiare dei centri estetici con decine di interviste a clienti per capire perché ci si sottoponga a trattamenti di bellezza, che cosa significa “sentirsi a posto” e se esiste un limite che altera una comune e condivisibile cura di se stessi in qualcosa di deleterio.
Il libro si divide in diversi capitoli che partono dalla storia sociale della bellezza per concludere con una
dettagliata riflessione sulla tanatoestetica, nella sua accezione di applicare tecniche e prodotti cosmetici su un corpo privo di vita allo scopo di migliorarne l’aspetto, quasi a voler trascendere la morte stessa.
È interessante conoscere il punto di vista su questo argomento di una persona che non è del settore e per questo l’abbiamo intervistata.
Dottoressa Patrone, ci può dire innanzitutto che cosa significa per lei essere antropologa?
Per tanto tempo ho pensato che occuparsi di antropologia culturale significasse andare in posti esotici dove studiare usi e costumi di popoli lontani e profondamente diversi da noi. Nel mio immaginario, l’identikit dell’antropologo coincideva con quello del viaggiatore curioso, a caccia di stranezze. Col tempo ho capito che il viaggio antropologico non richiede per forza di recarsi in un luogo lontano: ciò che conta è riuscire a dare luogo ad una prospettiva trasversale portando con sé un ricco equipaggiamento teorico, ma anche una consistente dose di umanità, di condizionamenti e di ineliminabili parzialità. Nella mia ricerca mi sono misurata con le cure di bellezza che ero solita praticare come un’outsider che le incontra per la prima volta, accostando alle riflessioni maturate nei miei anni di lavoro anche le preziose parole delle persone da me intervistate».
Ci può ora parlare del concetto generale di bellezza?
Come ho scritto, non esiste un parametro universale per definire la bellezza poiché si tratta di un costrutto socioculturale in continuo divenire. La storia ci racconta che non abbiamo ritenuto belli sempre gli stessi corpi, né che ce ne siamo presi cura sempre alla stessa maniera; la geografia ci conferma che anche nel tempo presente ciò che è bello a casa nostra, non lo è in ogni angolo del mondo. L’antropologia lo dice chiaramente: non esiste cultura che non apporti piccoli o grandi cambiamenti al proprio corpo adeguandolo a modelli ben precisi. Modelli che, quando differiscono molto da quelli a cui siamo abituati tendiamo a considerare incomprensibili, sgradevoli o addirittura aberranti (è il caso del rituale di fasciatura dei piedi in Cina o dei piattelli labiali della tribù dei Mursi) ma che stanno a testimoniare quanto il concetto di bellezza sia relativo e faccia fronte a esigenze specifiche.
Nella nostra società ancora saldamente legata al dualismo “mente-corpo”, possiamo a ragion veduta parlare di un corpo biologico (quello che ci ha fornito madre natura) e di un corpo sociale, che viene domato o modificato in modo più o meno invasivo, per essere appropriato a schemi condivisi. Parlare di bellezza e dei modi di praticarla sui nostri corpi, equivale a parlare del nostro modo di “farci umani” oltre il mero dato biologico; tra le altre finalità, questo mio saggio vuole anche combattere la diffidenza che avvolge la professione di estetista confinando il suo esercizio nel reparto “frivolezze”».
Nel libro dedica un ampio spazio alla tanatoestetica.
Pensando a come avrei potuto indagare il vasto tema della bellezza, è nata l’idea di approfondire anche le pratiche beauty che interessano i corpi morti. Poiché non lasciamo il mondo dei vivi esteticamente impeccabili, non ci congediamo puliti, composti e, di certo, non emaniamo profumi fragranti, sembra che sia paradossalmente da morti che abbiamo più bisogno di essere belli. Nella nostra società ormai poco abituata alla visione di un cadavere, il suo confezionamento estetico mi è parso un tema di grande interesse, capace di raccontare molto del nostro rapporto con la dipartita».
Come ha conosciuto questa professione?
Ammetto che non mi ero mai davvero chiesta che aspetto sia solito assumere il nostro corpo una volta cessate le funzioni vitali, fino a quando non ho scoperto che esiste una professione interamente dedicata al suo abbellimento. Nel cercare di capire in che cosa consista la tanatoestetica, mi sono accorta di quanto fosse ingenuo pensare che la preparazione della salma si limitasse ad un’elegante vestizione. A quel punto ho contattato alcuni professionisti per farmi raccontare nel dettaglio in che cosa consista il loro mestiere, che, anche se in modo diverso, intrattiene un certo grado di parentela con quello proprio dell’estetista: detersioni, massaggi, depilazioni e ampio uso di cosmetici consentono in ambo i casi una lavorazione del corpo ai fini di renderlo conforme ai dettami sociali».
Pensa che sia giusto o meno trattare il defunto?
La morte riguarda tutti, ma la nostra società tende alla sua negazione. Si muore lontano da casa e, quando accade, la presenza emotiva e pratica della comunità sembra venire meno, come se il decesso di uno dei suoi membri non la riguardasse. Se tempo fa era considerata parte stessa del quotidiano, oggi invece la morte è diventata un fenomeno astratto, tanto che vedere un cadavere non è più un fatto usuale e quando capita ci trova sorpresi, impreparati, “fuori esercizio”. Gli interventi di tanatoestetica possono farci superare questo shock. Sebbene rendere l’immagine di un defunto vicina a quella che gli corrispondeva da vivo e in buona salute possa essere considerata una mistificazione e le pratiche dei professionisti appaiano, talvolta, come appropriazioni indebite che segnalano la non volontà di arrendersi di fronte alla verità della fine, il trauma di chi resta, incapace di venire a patti con la morte e con la trasfigurazione che essa sempre porta (a maggior ragione nel caso di gravi incidenti), trova nella tanatoestetica una forma di conforto. Grazie ai trattamenti, il cadavere evita di presentarsi esattamente com’è, perché “esattamente com’è” finirebbe per apparirci irriconoscibile, altro, disumano.
Le pratiche estetiche, tese a imprimere su di esso un’ultima dose di umanità, rispondono alla necessità culturale di poterne sostenere la vista e allo stesso tempo rappresentano un atto di attenzione e di cura nei confronti del proprio congiunto, elementi fondamentali per quella che nella nostra società viene definita una corretta elaborazione del lutto. L’intervento del tanatoesteta, in definitiva, fa sì che la morte diventi una “buona morte” rendendola più accettabile».
A seguito delle sue ricerche è cambiato ora il suo concetto di morte?
La morte occupa da sempre uno spazio significativo dei miei pensieri. Durante la mia infanzia mi capitava di piangere temendo quella dei miei cari. Negli anni ho scoperto che mi piace visitare i cimiteri delle città in cui mi trovo e soffermarmi su quei singolari “luoghi di soglia”. Credo sia un modo per abituarmi all’idea che un giorno capiterà anche a me e alle persone che amo. Avere avuto l’opportunità di interrogarmi sulla morte ai fini del mio studio, ha reso il rapporto che intrattengo col pensiero della fine più ricco, più intenso e forse anche più sereno. Tramite le interviste condotte e i saggi che ho studiato, credo di essermi dotata di un piccolo equipaggiamento emotivo che non cancella la mia fragilità al cospetto della fine, ma, al contrario, mi abitua ad accogliere, abbracciare e rilassare questa parte spaventata di me. Del resto, se cercata attentamente, la morte è presente in ognuna delle nostre giornate e dentro a tutto ciò che consideriamo “vivo”. È morte ogni fine: di una relazione sentimentale, di un viaggio, di un libro, di un contratto d’affitto. Riflettere sulla morte per parlarne ne Il malinteso della bellezza mi ha intimamente convertita all’idea che dire “morte” non significhi dire il contrario della vita».
Raffaella Segantin