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i tanti drammi dell'ossezia

È impossibile occuparsi, come accade a chi scrive, di assistenza alle persone in lutto e non chiedersi se sia possibile e come sia possibile aiutare i sopravvissuti della strage di Beslan. Partirò da una dimensione a cui i lettori di Oltre Magazine sono sensibili per professione: dover organizzare senza nessun preavviso il funerale per centinaia di persone. In questi casi il funerale tende a perdere la sua funzione di "porta d'ingresso" verso l'elaborazione del lutto, funzione che solitamente svolge tramite la personalizzazione e la ritualizzazione che normalmente lo accompagnano. Gli operatori funerari presenti nella cittadina di Beslan hanno infatti dovuto preparare in fretta centinaia di bare e saranno state certamente tutte uguali (a parte la differenza di dimensione tra quelle per seppellire i bambini e quelle per seppellire gli adulti). Lo stesso dicasi delle tombe che solo dopo molto tempo potranno acquistare una identità corrispondente alle modalità personali di costruirle e di adornarle che caratterizzano tutti i cimiteri del mondo pur nella loro serialità corrispondente al gusto locale, alla religione locale e alla cultura locale.

D'altra parte, i riti funebri solitamente praticati nella città dell'Ossezia saranno stati certamente ripetuti anche nel caso delle vittime delle strage della scuola, ma con gli stravolgimenti che colpiscono i riti di una comunità tutte le volte che la comunità stessa viene colpita nel suo complesso. Infatti in ogni rito funebre normale c'è, ad esempio, la necessità di distinguere tra coloro che soffrono la perdita di una perdona cara e la comunità che assiste e accompagna i dolenti. Nel caso che stiamo discutendo questa distinzione è saltata con effetti distorcenti sulla "solennità" del funerale, risultato dell'equilibrio tra il ruolo di chi piange e si dispera e quello di chi accoglie e consola.

Si può intuire come la scarsa personalizzazione del funerale e la distorsione dei rituali funebri possano aver ridotto (in misura maggiore o minore) il funerale delle vittime di Beslan a smaltimento dei cadaveri, con una presumibile difficoltà degli operatori funerari ad assolvere il superlavoro richiesto, ridotti al ruolo di "beccamorti" quando, invece, sarebbe stato necessario identificarsi con un ruolo più nobile per affrontare la difficoltà massima per un "becchino" che è proprio quella di seppellire un bambino. Senza contare la difficoltà ulteriore che può essere derivata dall'essere l'operatore funerario in qualche relazione di parentela con i morti da seppellire, cosa non improbabile in una cittadina delle dimensioni di Beslan. Ma ovviamente i problemi e le difficoltà degli operatori funerari possono essere considerati un "lusso" di fronte alla morte atroce di tanti bambini e adulti innocenti e di tanti lutti per la perdita di tanti figli, insegnanti, mamme e papà.

Ma non solo di questo si tratta, poiché le difficoltà degli operatori funerari sono, da una parte, l'effetto della difficoltà di personalizzare e ritualizzare i funerali in un caso di strage, dall'altra la causa della difficoltà di organizzare un funerale come si deve e quindi di aiutare le persone in lutto fin dalle prime fasi di questo, cioè fin dalla realizzazione di un funerale coerente con le esigenze della elaborazione del lutto.

Passato il funerale resta il compito principale, per chi voglia aiutare i sopravvissuti della strage di Beslan, di organizzare una serie di interventi a lunga scadenza, dato che superare un lutto traumatico comporta un lungo processo che si potrà svolgere solo fermando innanzitutto la tentazione al suicidio di coloro che non sopportano il senso di colpa per essere sopravvissuti ai loro cari. Qualche genitore dei bambini morti in Ossezia si è già suicidato, segno che l'intervento di aiuto non è arrivato in tempo o non è stato efficace.

Adrano Sofri, su la Repubblica di qualche giorno fa, ha notato che a Beslan sono avvenuti due tipi di suicidio: il suicidio dei kamikaze che si sono fatti saltare in aria con i bambini e il suicidio di coloro che hanno perso i figli nella strage. Sofri sostiene che il suicidio di coloro che si suicidano uccidendo altri bisognerebbe dichiararlo "crimine contro l'Umanità", mentre nota contemporaneamente che ci riconosciamo nel suicidio della madre del bambino assassinato. Istituisce così una specie di "gerarchia morale": condannare il suicidio per uccidere altri e assolvere il suicidio per uccidere se stessi. Il primo sarebbe una specie di omicidio, mentre il secondo sarebbe un atto di libertà, la libertà di rifiutare la vita quando diventa insopportabile (per esempio perché ciò che dava valore alla vita, un figlio, non c'è più). I kamikaze sarebbero disumani (commetterebbero un crimine contro l'Umanità), i suicidi seguenti alla morte di un figlio sarebbero umani perché ucciderebbero solo se stessi affermando così il loro diritto di rifiutare la vita a certe condizioni o di punirsi da sé per la colpa di non essere stati capaci di salvare un figlio.

E se, invece, scoprissimo che i due suicidi sono due reazioni diverse allo stesso insopportabile evento, cioè la morte ingiusta e violenta di una persona cara?

Il capo dei terroristi ceceni che ha rivendicato la strage di Beslan aveva giurato sui cadaveri della moglie e dei figli morti sotto un bombardamento russo che la loro morte sarebbe stata vendicata. C'è invero una profonda differenza tra chi decide di vivere per vendicare i propri morti e chi si uccide perché non può più vivere senza di loro; ma hanno in comune la impossibilità di perdonare: perdonare gli altri per avere ucciso i cari, perdonare se stessi per non essere stati in grado di salvarli! Sottendono in sostanza una stessa reazione alla colpa per aver ucciso: chi ha ucciso o non ha saputo salvare merita la pena della vita! Che le cose stiano così è avvalorato anche dal sapere che già molti genitori dei figli morti nella scuola di Beslan si organizzano per vendicarsi: smetteremo per questo di riconoscerci in loro?

La vera gerarchia morale che bisognerebbe fare sarebbe forse un'altra: dovremmo imparare a riconoscerci tutti (vittime e carnefici) nella possibilità umana di distinguere in ogni atto violento responsabilità e calcolo della pena, in modo da continuare ad imputare a chi uccide i nostri cari la responsabilità di averli uccisi e a noi stessi la responsabilità di non averli saputi salvare, senza pensare che sia possibile "calcolare" una pena esattamente corrispondente alla loro o alla nostra colpa. Perché non basta uccidere chi ha ucciso o chi non ha saputo salvare per riportare in vita chi è stato ucciso: la pena giusta per aver ucciso è vivere con la pena infinita di sapere che nessuna pena potrà espiare la colpa! Con la conseguenza che finalmente sarebbe poco conveniente uccidere e che il comandamento "non uccidere" non sarebbe più una voce che risuona nel deserto!
 
Francesco Campione

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