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LA SERA E LA MORTE

"O Morte! […] mi rassembri simile al sonno della sera, quiete dell'opre. […] M'affaccio al balcone ora che la divina luce del sole si va spegnendo, e nell'opacità del mondo malinconico e taciturno contemplo l'immagine della distruzione divoratrice di quanto esiste".

Così, nel suo primo e unico romanzo, le giovanili Ultime lettere di Jacopo Ortis, Ugo Foscolo (1778/1827) già enunciava il tema della sera come immagine della morte, che si sarebbe più di una volta ripresentato nella sua opera, e che è comunque al centro del sonetto che nel 1803 volle stampare in apertura dell'edizione definitiva delle sue Poesie, conferendogli così un particolare rilievo.

È sempre rischioso collegare troppo strettamente le vicende biografiche di uno scrittore con i contenuti della sua opera letteraria; lo è un po' meno nel caso di Foscolo, che in qualche modo sembra voler incoraggiare il lettore a tale commistione. Possiamo dunque legittimamente collegare la composizione del sonetto ad un periodo di seria crisi esistenziale, e chiederci che significato assuma la meditazione sulla morte suscitata dall'immagine del calare della sera.

Anzitutto, nulla di angoscioso, spaventoso o terribile: anzi, se la sera giunge cara al poeta, è proprio perché richiama l'idea della morte, la quale a sua volta non si presenta nella poesia col suo nome, ma come la fatal quiete. E con questo, fin dal primo verso Foscolo ha cominciato a porre un punto essenziale, chiarito poi nel seguito del testo: turbamento, irrequietudine, angoscia (le cure), sono caratteristiche essenziali ed ineliminabili casomai della vita, dell'esistenza. In tutto ciò si tormenta e si consuma, si strugge, il tempo della nostra vita, un tempo che può essere definito reo, cioè malvagio. E qui possiamo osservare come mirabilmente si fondano la dimensione individuale e quella collettiva: il reo tempo è certo quello delle tempeste interiori di Ugo Foscolo, ma contemporaneamente una intera situazione storica, italiana ed europea, sentita come problematica ed oscura.

Questo presente connotato in modo così negativo volentieri lo lasciamo fuggire, senza dolore o nostalgia, aiutati dall'immagine della sera e di ciò che essa evoca. Ma dove volgiamo il nostro spirito? Qui sta il secondo punto essenziale. Il poeta-eroe col suo spirto guerrier appassionato e sconfitto, in conflitto con i tempi suoi, sente il pensiero della morte come unico sbocco possibile; ma è ben attento a non attribuire a ciò alcun senso di speranza, tanto meno di tipo religioso. La fatal quiete non è il riposo o il premio del giusto, ma la condizione che inevitabilmente, fatalmente subentra allo spegnersi della vita; dopo la quale, materialisticamente, non v'è se non il nulla eterno.


Forse perché della fatal quiete
tu sei l'immago, a me si cara vieni,
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,

e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all'universo meni,
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme

delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch'entro mi rugge.
 
Franco Bergamasco

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