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La scomparsa di Mario Monicelli

Il regista che non andò mai alle Maldive

Indugio di fronte alla responsabilità di questo foglio. È la testa, e non ciò che sento nel cuore, che dovrà guidare le parole nel commentare la scelta di un uomo nello spegnere a modo suo ciò che gli appartiene oltre ogni altra cosa, la sua unica e irripetibile vita. Dovrò distaccarmi dai ricordi di ciò che quell’uomo ha collocato nella mia memoria. Un uomo al quale devo alcuni dei momenti più esilaranti eppur formativi che hanno segnato la mia giovinezza: Mario Monicelli, ben più che un regista.
Mentre ne scrivo mi tornano in mente stralci di una memorabile intervista andata in onda su Raitre alcuni anni fa. Un paio di giovani croniste ripercorrevano la carriera del maestro: proiettando immagini di alcuni film mostravano commenti di collaboratori e di artisti che avevano avuto l’arduo piacere di lavorare con lui e che si impegnavano nella provocatoria professione, cozzando con un monumento alla consapevolezza del sé. Egli, il regista, ma soprattutto l’uomo, il protagonista, il non vecchio di novant’anni, elegantemente accomodato su di una poltrona che ricordo rossa, rifiutava con forbita sagacia il prematuro epitaffio, l’onore delle armi, e ancora stupiva me spettatore quanto le due ragazze, affascinate, sopraffatte da una personalità per niente appannata. Ricordo che da quel maturo Monicelli era emerso chiaramente già allora il suo rapporto con la vita e soprattutto con la morte. Aveva apertamente dichiarato di non averne paura, di non essere soggetto al timore e al ricatto dell’aldilà. “Cose che si scopriranno a suo tempo” aveva detto con altre parole. Parole che avevo condiviso e che mi erano apparse profetiche. Parole di un uomo pragmatico, attaccato alla vita e a tutto ciò che di meglio può regalare questo bel tempo che ci è dato da adoperare.
Piegandomi con massimo rispetto di fronte alla scelta di essere egli stesso il proprio carnefice, oso dire che l’uomo di questa sua vita ne ha fatto un’abile regia ricamando per questo speciale lungometraggio un magnifico, seppur violento, finale. Non è da tutti avere altrettanta coerenza tra parole che si dicono in pubblico e decisioni che richiedono molta forza e molto coraggio. In questo caso il termine “suicidio” ha un altro nome che in me suscita ammirazione. È facile morire quando si è vecchi davvero, quando la mente è svanita, lontana dal corpo e da tutti i suoi desideri, dalle umane voglie. Quando la falce cala a mietere i resti di ciò che fu e di cui non resta nemmeno più il ricordo, oppure quando lo sconforto di un corpo devastato allontana ogni suadente richiamo del vivere. Terribile e altrettanto epico deve essere invece dover scegliere l’attimo finale, il più importante della vita, con rassegnata lucidità. Sceglierlo controvoglia, con cosciente, seppur malinconica consapevolezza, poiché così si è stabilito nella più vera della facoltà di un libero arbitrio: scegliere perché il momento è quello. È il momento in cui la mente dice al cuore che è venuto il tempo di andare, di smettere di esistere poiché di meglio non vi è nient’altro da fare, perché la strada da percorrere è terminata e di fronte non rimane che un breve, inevitabile, previsto ed umiliante tempo di farmacologico peggio.
Non mi permetterei di scrivere ciò se io per primo non fossi stato lusingato a suo tempo e per motivi ben dettagliati dal sinistro fascino del trapasso meditato. Non mi permetterei se non mi sentissi quasi autorizzato a farlo da quando, nel corso dell’intervista, spiazzando ogni commento sulla sua età Monicelli si definì con mirabile ironia “l’ultimo dei registi morenti”. L’ultimo della sua specie. Non mi permetterei se da una sua frase non avessi tratto un assioma del vivere. Alla domanda se nella sua vita avesse ragionato più con la testa che con il cuore, Mario Monicelli rispose con la velocità di colui che sa quel che dice: “Con la testa ho tenuto a bada le impulsività del cuore”. E da lì il Maestro mi fu maestro. Aveva 90 anni e quello show televisivo sembrava un omaggio alla carriera, ma a me parve che il cinismo della tv volesse scrivere in quel momento il necrologio del personaggio così da farne scoop, sensazione, in attesa di un breve conto alla rovescia. Mi fu evidente che il soggetto non fosse affatto d’accordo. L’uomo era pieno di vita e di energia, di saggezza, di consapevolezza del sé e della sua lunga vita. Non aveva affatto l’intenzione di considerarla finita.
Oggi che il destino è stato scritto dal volere e non dalla casualità, la mia ammirazione va ben oltre ogni tristezza. È un gran privilegio poter vivere e morire così, come meglio non si può fare. È il momento del tributo, è l’ora del ringraziamento. All’epopea di “Amici miei” il maestro Monicelli è stato sinistro ispiratore di non pochi scherzi messi in atto da me e … dagli amici miei, a quel tempo burloni universitari, satanassi di una goliardia che non esiste più. Dell’armata Brancaleone, sempre in quel tempo di universitari fuori corso, se ne fece un’interpretazione autarchica, attingendo ai personaggi e al linguaggio, rendendo la nostra giovinezza ancora più ilare, senza renderci conto di arricchirla ridendo e di farla più colta. Mi fermo poiché la lista di quanto abbia procacciato ispirazioni da certi imperdibili attimi di quel genere di commedia, per la mia vita e per la mia ben più umile carriera, sarebbe ancora lunga.
Tante le piccole, grandi sfumature del carattere di un uomo assolutamente insolito, un uomo di spettacolo, ma anche schivo e modesto. Un uomo ironico e consapevole delle distorsioni dei nostri tempi. Regista innanzitutto del suo vivere, dell’amare il suo lavoro, del raccogliere l’ammirazione della gente che ha condiviso il suo percorso. Memorabile la risposta alla curiosità su ciò che avrebbe voluto imprimere come suo epitaffio: “Non sono mai andato alle Maldive”. È la storia di un uomo in sei parole. Nella scelta di Monicelli di volersi appartare dal mondo femminile all’avanzare della vecchiaia vi è il creativo e coerente gesto di un uomo che ama se stesso: “Per poter vivere lontano dalla donna apprensiva, infermiera nell’animo, che tende a farsi carico di ogni bisogno presunto dell’uomo, affievolendone la fantasia del vivere...”. Un isolarsi così da doversi tenere attivo, obbligato a badare a se stesso, ma libero nel gesto e nel pensiero, senza oziare, per vivere di più, come probabilmente è stato. Profondo il suo ricordo e il rispetto per quei tanti mostri sacri del cinema di un tempo superato dai tempi, quando vi era lavoro per tutti, un cinema fatto di stima, di amicizia e di buon gusto. Non mi sento di definirlo un lavoro sorpassato. Ultimamente, quando mi imbatto in una delle sue opere, non mi stanco di scovare tra le righe sublimi sfumature che ancora oggi sono una icona di pregi e di difetti tipica del nostro poliedrico, tristemente comico, popolo italiano. Miniera ricca, sebbene forse oggi un po’ esaurita, di grottesca ironia dalle radici popolari e provinciali.
La presunzione di ogni artista è quella di lasciare dietro di sé tracce che non moriranno mai. L’opera di Mario Monicelli è un durevole, amichevole attentato artistico dedicato alle tante e divertenti debolezze del vivere. Ma qualcos’altro resterà per sempre. Scegliere di far calare il sipario e di trasformare la commedia della vita in un apparentemente tragico, ultimo gesto, non potrà che rimanere come una grande eredità espressiva, il più sublime dei finali, un omaggio al realismo, in tema con quel deliberato immolarsi di Gassman e di Tognazzi nel commovente epilogo de “La grande guerra”. In quel meditato, solitario volo dal quinto piano, immagino il Maestro intento ad un’abile regia, tecnicamente assorta nello scrivere i titoli di coda della sua più breve, impegnativa opera d’arte; e per ultimo la parola “fine”. La presunzione dalla quale sono afflitto vorrebbe giudicare l’estremo gesto come sommo capolavoro di un uomo che ha avuto la fortuna di potersi proporre come è stato, senza mascherare il proprio carattere, scegliendo la libertà di essere e di dire senza camuffarsi, fino all’ultimo istante, fino all’ultimo colpo di scena di un copione scritto per sé e per nessun altro. Umile, terrena, terribile, solitaria e pur bellissima cornice dedicata alla libertà fino in fondo. Libertà di come, dove, quando morire arrendendosi solo all’inevitabile forza del male. Abbandonare la scena lasciando ben lucidamente espresso il destino dei propri resti, continuando ad appartenere solo a se stessi anche in quel breve tempo dedicato alle esequie, a quel dopo che troppo spesso si consuma trasformandosi in un fugace, spettacolare, ambiguo e sovente ipocrita evento. Provo grande ammirazione e siderale rispetto.
Nella mia fantasia romantica e un po’ retrò, contraddicendo qualche mio credo, ma lasciandomi cullare dalla stravaganza di inventare qualche soggetto, immagino nell’aldilà una grande festa. Mancava solamente lui, il burbero regista. Immagino Gassman e Totò, Aldo Fabrizi, Walter Chiari e la Magnani, Mastroianni, Manfredi, Alberto Sordi e Adolfo Celi, immagino loro ed altri più modesti teatranti, bellamente comandati e pronti a fare danno nell’aldilà. Dovranno stare attenti gli angeli e i santi, potrebbero subire uno scherzo od un motteggio in ogni istante. Immagino una grande commedia all’italiana lassù, nell’alto dei cieli, mentre qui da basso, così come espresso senza peli sulla lingua dal maestro e dal suo “caratteraccio”, rimangono a far del cinema molti cialtroni.
 
Carlo Mariano Sartoris

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