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di cosa si parla quando si parla del tabù della morte

Della morte non si vuol parlare e si vive come se non si dovesse mai morire, cioè distraendosi dal pensiero della morte. Tutto ciò avvalora la tesi secondo la quale la morte nella nostra epoca è tabù (proibita e indicibile) ed è rimossa dalla coscienza.

Poi si accende la tv, si leggono le statistiche dei libri più venduti, dei generi letterari più popolari (giallo, horror, fumetto noir, ...), e ci si rende conto che della morte non solo se ne parla, ma la si cerca come ciò che di più interessante si possa trovare. Allora viene il dubbio che la morte nella nostra epoca non sia affatto tabù e non sia affatto rimossa. L'equivoco consiste nel trascurare che si potrebbe trattare di due "diverse morti": infatti, la morte tabù e rimossa è la morte naturale, la morte interessante e familiare è la morte violenta.

Strano affare: la morte che dovrebbe fare più paura, la morte violenta, la facciamo entrare in casa tutti i giorni col telegiornale o con le nostre letture preferite; quella che dovrebbe fare meno paura, la morte naturale, cerchiamo di evitarla quasi ossessivamente. Che qualcosa non vada in questo comportamento lo avvertiamo quando evitiamo di esporre i bambini alla morte violenta o quando i più sensibili di noi si dicono disturbati dalle immagini o dalle notizie che evocano questo tipo di morte. Le cose si complicano nuovamente quando si constata che nemmeno alla morte naturale si permette di avvicinarsi ai bambini e alle persone impressionabili.

I bambini devono essere difesi da tutti i tipi di morte; quando si cresce si deve essere difesi solo dalla morte naturale poiché gli adulti, invece, sono attratti da quella violenta. Storicamente non è stato sempre così. Infatti, fino a tutto il XIX secolo, la morte, naturale o violenta, era il tema più rappresentato dell'educazione dei bambini e degli adulti. E ciò perché (la maggior parte degli storici sono concordi) la morte peggiore era considerata la morte improvvisa, morte che faceva rischiare a chi aveva fede in un aldilà di "ricompense" di morire nel peccato e quindi di avere una vita eterna di dannazione (l'Inferno). "Ricordati che devi morire, che sei polvere e polvere ritornerai" era il precetto più importante e più ascoltato. Ma poi (tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX) le cose cambiano: la fiducia sempre crescente dell'uomo nelle sue possibilità tecniche trasforma la morte da Male metafisico (dovuto alla Caduta di Adamo ed Eva nel paradiso terrestre, cioè al peccato) a male fisico (dovuto al deteriorarsi del corpo tramite le malattie); l'Umanità si concentra nello sforzo di combattere le malattie mentre si è in vita e la fede nell'aldilà va in crisi.

Venendo meno la fede nell'aldilà il pensiero della morte diventa qualcosa di negativo: qualcosa che indebolisce la motivazione a lottare contro le malattie e la fiducia di potercela sempre fare. La Modernità, come dice il sociologo Bauman, "decostruisce" (smonta per rimontare in modo diverso) la morte in modo che "scompaia" dietro le sue cause. In altre parole, se si muore sempre a causa di qualcosa, si può pensare che combattendo le cause della morte si potrebbe non morire mai. Come dire che è meglio se ci concentriamo sulla lotta contro le cause (malattie, condizioni di vita distruttive, ...) piuttosto che pensare all'aldilà con l'unico risultato di angosciarci continuando ad avere una breve vita. Risulta chiaro che la morte di cui si parla qui è la morte causata da qualcosa di rimediabile, non la morte che alla fine è inevitabile nonostante si lotti contro le sue cause. Si parla in sostanza della morte violenta, cioè della morte riconducibile a cause contrarie alla vita e rimediabili, e non della morte ontologica, la morte naturale che, essendo programmata biologicamente e utile alla specie (cioè non contraria alla vita, ma trait d'union tra la vita individuale e la vita della specie), non può essere ricondotta ad alcuna causa particolare e non è quindi rimediabile tramite alcun progresso medico scientifico.

La fede nell'aldilà era la risposta al male della morte naturale; di conseguenza, la crisi della fede nell'aldilà ha lasciato senza risposta il male della morte naturale, cosicché non si è potuto fare altro che farla "scomparire" (il tabù e la rimozione) come si fa scomparire il colore originario di una parete ridipingendola. La morte è così diventata per la Modernità sempre violenta e l'uomo ha potuto distrarsi dal pensiero della morte inevitabile attraverso tutte le crociate senza fine contro la morte violenta.

Laddove questo tentativo di cancellare dalla coscienza collettiva la morte ineluttabile (cioè la morte naturale) ha avuto successo, il pensiero della morte è diventato tabù e da rimuovere per l'individuo, che ha da allora avuto a disposizione da parte della cultura solo rappresentazioni della morte violenta. Non è così anche nella giungla?

E questo esito spiega tanti comportamenti apparentemente propri dell'uomo contemporaneo di fronte alla morte. Basta pensare a questo proposito alla difficoltà dell'uomo di oggi in Occidente di aspettare la morte con tranquilla coscienza, che è semplicemente la pazienza di invecchiare.

Laddove (e nella misura in cui) invece questo tentativo è fallito e si è ricominciato a parlare della morte naturale, e delle difese che bisogna opporle perché non produca, in assenza di una fede nell'aldilà, un angosciante nichilismo, gli esiti sono stati fondamentalmente due: a) da una parte un tentativo di recuperare la fede nell'aldilà inevitabilmente in modo individualistico e personalizzato in un'epoca di individualismo e narcisismo imperanti. Ne sono espressione il revival strumentale (credere significa avere una marcia in più e quindi bisogna credere senza nessuna garanzia di poterci riuscire) delle religioni tradizionali e la religiosità "new age"(quella specie di bricolage dei rituali e delle cosmologie che scaturisce dal sincretismo di chi pesca ciò che gli serve dove lo trova senza curarsi di rischiare mescolanze "mostruose" o isolandosi dentro ambiti settari che riducono l'ansia al prezzo di appartenenze artistiche o talvolta francamente paranoidee); b) dall'altra un tentativo di "decostruzione dell'immortalità"(Bauman) che consiste nel togliere alla morte il suo pungiglione assimilandola ad una scomparsa reversibile. Si fa così: si conclude che essere vivi vuol dire apparire (nei media) e se ne deduce che essere morti vuol dire scomparire (dai media). La morte diventa così irreversibile: basta essere registrati in un video e si raggiungerà l'immortalità.

Si comprende come di fronte a queste alternative (il recupero di un passato che non può tornare, l'invenzione di una metafisica individuale o di gruppo, la trasformazione della vita reale in vita virtuale) molti preferiscano il presente oggettivo e autentico della morte violenta che almeno si può combattere e che stimola lo sforzo di acquisizione di un potere tecnico sempre maggiore attraverso il quale sperare di poter vincere un giorno la lotta contro la morte (le cyber-utopie sono un esempio di questa speranza).

Ma nell'Umano ci sono indizi per concepire una alternativa che sfugga sia alla giungla della morte violenta, sia agli obblighi imposti dalla morte naturale: credere in un aldilà che sia solo un refugium peccatorum; inventare improbabili cosmologie che finiscono per essere proiezioni di un "io" in crisi ma che non si rassegna a cedere sovranità; virtualizzare la vita per potersi guadagnare una immortalità altrettanto virtuale.

L'indizio principale viene fornito dalla possibilità di aiutare le persone in lutto ed essere aiutati dagli altri quando si è in lutto. Poiché solo in questa situazione della vita si può dimostrare che nonostante la violenza del cordoglio per la morte di una persona cara, che fa di ogni morte una morte violenta, la morte naturale trova il suo aldilà senza bisogno di fedi, cosmologie o virtualità. In altri termini, se consideriamo la morte non solo dal punto di vista di chi muore, ma anche dal punto di vista di chi resta, l'opposizione tra morte naturale e morte violenta, così come abbiamo visto delinearsi nella nostra cultura, non ha più ragione di essere. Infatti, per chi resta la morte del caro è sempre una morte violenta al di là della morte naturale. Per chi guarda la morte violenta in tv o ne legge in un giallo essa è sempre al di qua della morte naturale, a meno che non si assista in diretta (o si legga il racconto) alla morte violenta di un proprio caro. Per chi rimuove la morte o ne rispetta il tabù la morte diventa naturale proprio perché il tabù o la rimozione le hanno sottratto violenza.

Solo nel lutto la morte naturale è in un aldilà (e quindi non c'è bisogno di credere in qualche aldilà per difendersene) che diventa morte violenta (cordoglio) in chi resta.

Ecco che l'aldilà non è più così difficile da conseguire e non può più essere usato per consolare chi deve morire: chi muore renderebbe la sua morte meno violenta (perché c'è l'aldilà), ma conseguirebbe trasferendo la violenza della morte in chi resta. Solo se riusciamo ad attenuare il dolore del lutto (cioè se riusciamo a rendere meno violenta la morte per chi resta) la vita di chi resta sarà un aldilà positivo per chi muore (e non ci sarà più bisogno di rimuovere la morte naturale perché ad essa si lascerà un guscio vuoto). Gli indizi ci sono, ma l'aiuto alle persone in lutto è l'aiuto più problematico nella Cultura Occidentale.

 
Francesco Campione

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