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Suor Angelica di Puccini alla Scala

"Senza mamma o bimbo tu sei morto"

L'esistenza di una persona può a volte ridursi ad essere legata ad un solo filo, forte e fragile al tempo stesso: la vita di un altro individuo. Se la morte lo spezza, anche l'esistenza di quella persona non è realmente più possibile. Questo è il nucleo drammaturgico di Suor Angelica, il pannello centrale - prediletto dall'autore - del Trittico di atti unici che Giacomo Puccini presentò al pubblico internazionale nel 1918 a New York, composto per il resto dal Tabarro e da Gianni Schicchi.
La vita scorre regolare, solo con lievi increspature emotive, nel convento in cui è ambientato l'atto unico che ha solo protagoniste femminili; così anche, apparentemente, per suor Angelica (ma le consorelle sanno che è una ricca nobile orfana, da sette anni costretta dalla famiglia alla clausura come punizione per una misteriosa colpa, e che è segretamente affranta per non aver mai più avuto notizie dei propri congiunti). Una visita improvvisa lacera con fredda violenza la quiete apparente: è la gelida zia principessa, venuta ad imporle la firma ad un atto di divisione del patrimonio e, in questa occasione, a ricordarle aspramente la colpa vergognosa che anche noi ora apprendiamo: aver generato un figlio illegittimo. Ecco dunque l'unica ragione di vita per Angelica, il bambino da cui è stata strappata, di cui non ha più saputo nulla e di cui supplica di avere notizie. L'apice del dramma (anche dal punto di vista musicale) giunge improvvisamente quando la gentildonna con inaudita freddezza solo a questo punto, come en passant, comunica alla giovane madre la morte improvvisa del piccolo. Firmato l'atto con mano tremante, congedatasi la principessa, mentre le monache accendono i lumini sulle tombe del loro piccolo cimitero, suor Angelica dà voce al suo dolore con un canto, Senza mamma o bimbo tu sei morto, che è uno dei vertici più toccanti dell'arte pucciniana. Ma il filo è spezzato: la giovane donna si darà la morte con un infuso di erbe venefiche; e l'esito tragico è solo lievemente velato dal fatto che la Vergine, invocata in punto di morte, le conceda una miracolosa visione del fanciullo amato.
Puccini avrebbe preferito che le tre brevi opere componenti il Trittico non venissero eseguite singolarmente. Sta di fatto che, anche per il particolare successo del Gianni Schicchi, che ha una rigogliosa vita autonoma, ascoltare il Trittico vero e proprio è quasi una rarità. Alla Scala, per esempio, mancava da un quarto di secolo; bene ha fatto quindi il teatro milanese a riproporlo, sotto la direzione di Riccardo Chailly e per la regia di Luca Ronconi, con le scene ed i costumi di Margherita Palli. Proprio sul lavoro di Ronconi e della Palli, come sempre del resto, si appuntavano grandi attese; una parte del pubblico e della critica considera tali attese deluse, ma ingenerosamente, a nostro avviso, e specie proprio per quanto attiene Suor Angelica. È di eccezionale impatto visivo infatti l'idea di non rappresentare l'ambiente del convento e di occupare invece quasi l'intero palcoscenico con la gigantesca figura femminile (una suora, o piuttosto una Madonna, considerato il manto azzurro) riversa bocconi in diagonale nell'atto di chi si è abbattuto al suolo disperato, o privo di vita. Tale figura da un lato simbolizza potentemente il nucleo tragico della vicenda: quello strazio femminile, insostenibile (tanto più se essa allude alla Vergine nella sua veste di Mater dolorosa); dall'altro costituisce un "oggetto" scenico, un vero e proprio praticabile su cui i personaggi salgono, o ne scendono, o si fermano: e ciò con un effetto nettamente antirealistico che contribuisce a scongiurare il rischio di una certa stucchevolezza che quest'opera può correre specie nella prima parte (le suorine cinguettanti). Di considerevole livello il versante musicale grazie al direttore, alla primadonna Barbara Frittoli, molto espressiva come sempre, e alla spettrale Zia di Mariana Lipovsek.
 
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