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La scomparsa di Umberto Eco

L'illuminismo perduto

Il pendolo che scandisce il tempo della vita per Umberto Eco si è fermato ad anni 84, privando le persone a lui vicine, ma anche l’Italia e il Mondo, di una penna avanguardista, di un innovatore, di un filosofo e di un grande esperto della comunicazione, uomo di vasta cultura apprezzato e benvoluto, di uno scrittore che ha tracciato la strada per costruire il pathos novellando cultura. Personaggi come lui non hanno mai finito di arricchire il mondo: sono perle rare ed è per questo motivo che al mondo manca già. Di lui ho letto due volte “Il nome della rosa” e, anche se l’autore lo ha sempre definito “il mio peggior romanzo”, l’ho trovato una eccellente anticipazione dei metodi di ricerca scientifica di un colpevole, così come si vede oggi in tv, inserita in un contesto storico in cui l’inquisizione e la tortura erano i sistemi di una brutale legge. Anche l’omonimo film l’ho trovato pregevole e lo rivedo sempre volentieri. “Il pendolo di Foucault” invece, per quanto mi sia impegnato, ho trovato difficoltà a digerirlo: non sono mai riuscito ad arrivare in fondo e di questo me ne assumo ogni responsabilità.
Di lui non ho letto altro e poco saprei dire in modo originale che già non sia stato descritto. Non è facile ricordare una figura, sebbene pubblica e nota, senza aver condiviso qualcosa di più che qualche nobile lettura o qualche sviscerata passione per ciò che ha fatto nella vita: si corre il rischio di produrre un duplicato di altre penne e non è nel mio stile. Ecco perché, quando si ha la fortuna di conoscere un buon amico del grande scrittore, soffermarsi a ricordarlo insieme è una occasione per “andare oltre”, scovando nella malinconia della voce di chi racconta un genuino dispiacere. In quei momenti il ricordo diventa confidenza. Ne scaturisce l’immagine di Umberto Eco come uomo di grande intelligenza, pronto a cogliere l’occasione più propizia per affiancarsi alle persone giuste, strada arguta se si vuol trovare spazio per le proprie ambizioni; e poi l’ammirazione per l’immensa cultura, ma anche altro.

Umberto Eco nel ricordo del Mestro Ezio Gribaudo

Ezio Gribaudo mi racconta che Umberto Eco, in quel di Alessandria, era il vicino di casa e grande amico d’infanzia di quella ragazza che poi Ezio prese in moglie. Conoscerlo incontrandolo a Torino e fraternizzare subito, come accade tra uomini di un certo spessore, fu l’inizio di una amicizia destinata a durare per sempre. Nel ricordarlo a ruota libera affiora la reminiscenza di un Umberto geloso delle proprie cose e appassionato di fumetti, letteratura per immagini che solletica l’inventiva. E poi, trasferitosi presso il collegio universitario di Torino, di un uomo che ha saputo sapientemente scegliere le proprie compagnie nel tempo in cui la Rai, che cresceva insieme alle ambizioni del paese, era fiore all’occhiello della città ed era in cerca di idee nuove. Ecco quindi che il racconto descrive Eco chiamato a rinfrescare il linguaggio della Rai, affiancato a sapienti personaggi dell’entourage torinese (Furio Colombo, Michele Straniero, Gianni Vattimo), e poi come topo di biblioteca sempre in cerca di sapere, con gli archivi Rai spalancati alla sua fame di nuovi fumetti fatti di immagini e di parole. Racconto di un uomo ricordato come un sapiente opportunista, capace di cogliere il luogo, la gente e l’attimo, per uscire dall’anonimato e dar libero sfogo a se stesso. Ricordi di un Umberto sposato con Renate Ramge, moglie di origine tedesca definita come una “gran donna”, così come ogni grande uomo dovrebbe avere accanto. Ricordi che si allungano nel tempo, narrando di uno scrittore eccelso nel liberare la propria creatività attingendo nel sapere e nella passione per la storia medievale, producendo collage di inventiva cultura e di storica verità sapientemente amalgamate con autentico e inconsueto genio di creatività.
Ecco svelato il mistero della lungimiranza e dell’intreccio dei suoi romanzi, ma non solo. Ecco l’immagine del soggetto studiata più da vicino: un volto umano talvolta giustamente presuntuoso e in quanto tale un po’ controcorrente che, neppure poi segretamente, aspirava al premio Nobel per la letteratura, il sesto italiano dopo Carducci, Deledda, Pirandello, Quasimodo e Montale. Un premio Nobel poi assegnato a Dario Fo, mossa mal digerita da Eco, maturata in un contesto di onorificenze che, come spesso accade in ambienti di onore, di gloria e di immortalità latente, segue strade parallele, ritmi di alternanza, giudizi centellinati con cura, con un occhio all’operato e l’altro al valore aggiunto del suo ritorno.

Racconto di un amico, di una persona che gli voleva bene e che prosegue rammentando un percorso di vita, i loro incontri, storie di piccoli aneddoti e di case editrici, diapositive di un grande osservatore della politica; il rifiuto di scrivere per il gruppo Mondatori-Rcs, definito “la Mondazzoli”, fino alla più recente avventura, il sodalizio con Elisabetta Sgarbi e la fondazione della casa editrice “La nave di Teseo”, operazione dettata dal cuore e ironicamente definita con un giocoso aneddoto: “Oggi fondare una casa editrice è il miglior modo per perdere i propri soldi”. Dopo aver pubblicato “Numero zero”, un ironico giallo sul giornalismo svenduto che si inoltra tra le più misteriose, oscure vicende di cui è tappezzata la recente storia del nostro Paese, l’ultima opera di Umberto Eco, che è già un best-seller, si presenta con un titolo sintomatico: “Pape Satàn Aleppe”, frase senza un vero significato presa in prestito dalla Divina commedia, VII canto dell’inferno. Il sottotitolo, “Cronache di una società liquida”, ne chiarisce il senso e ne svela l’intenzione di restituirci le immagini della confusa e inafferrabile società contemporanea. Ultimo tocco ironico e critico di un grande osservatore dell’andar dei costumi e dei tempi, quasi un regalo per i cervelli in cerca di un illuminismo perduto e di una coscienza propria.
Umberto Eco ha lasciato al mondo ciò che ogni uomo dovrebbe fare: un segno tangibile, positivo e profondo del proprio passaggio su questa generosa, paziente e bellissima Terra. Essere ricordato come un grande uomo che di certo ha omaggiato il proprio tempo dovrebbe essere interpretato come il miglior colpo di teatro, la più onorevole via d’uscita. Coglierne il vuoto dal malinconico e pur vivace ricordo dalla voce di un amico di lunga data, anch’egli sopraffino maestro di cultura, di arte e di vita, ne rafforza l’immagine, ne solidifica il tempo, il pensiero, le opere lasciate a memoria e tutto l’umano andare di tante piccole, intime cose. Immaginare ora la sua anima a raziocinare nel girone degli intellettuali, discutendo di questa o di quell’altra umana, fallace eppure splendida teoria con sommi poeti, remoti filosofi e insigni romanzieri è il fumetto che mi passa per la testa in questo fugace, rispettoso momento.
 
Carlo Mariano Sartoris


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