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Dialogando di quel tempo e di quel bar

“Che cosa fai strano individuo che, seduto placido su quella sedia, spingi lontano lo sguardo?”
 
Sto pensando a un tempo remoto, quando ci si trovava tra amici, la sera, in quel dehors che sapeva di vita leggera, allegra e spensierata”.
 
“Hai davvero l’occhio di chi sta scrutando tra le pieghe del tempo. Dov’era quel posto? E com’era?”
 
Indovina! Quand’eri accomodato con lo sguardo rivolto a ponente, potevi vedere le auto passare: frotte di gente che andava di fretta. Si fermavano e poi ripartivano, scandite dai ritmi dei semafori. Sulla destra incombeva l’ombra severa della Gran Madre, la chiesa e la sua larga scalinata. Di là dal corso e dalle sue vetture, scorreva il Po. Se ascoltavi oltre, ne potevi udire il frusciare potente, lento e costante. Se annusavi, ne percepivi l’odore molle, umido; e sembrava d’essere altrove. Torino era sparsa oltre il ponte. Dal dehors si vedeva piazza Vittorio, imponente, maestosa, quasi inquietante, bella e illuminata, con la sua corona di portici a delimitarne il profilo barocco. Sullo sfondo si stagliava la Mole aguzza”.
 
“Sì, riconosco il luogo, dall’altra parte del corso iniziava il viale e poco prima del ponte c’era una fontanella. Anch’io ogni tanto, sotto mentite spoglie, amavo fermarmi lì per spezzare la monotonia del mio lavoro”.
 
Il posto è quello! Dell’interno del Gran Bar rammento un grande bancone curvo, odore di legni e caffè, specchi, due sale che, pur non essendo una perla d’arredamento, ricevevano gli ospiti su divanetti di velluto. Era un luogo che faceva tendenza in quel tempo, ora non so. Ci si ritrovava lì tutte le sere o quasi: un caffè, un bicchiere di chardonnay, un cocktail per chi aveva gusti più raffinati”.
 
“Lo so, era un luogo di adunata. Sai, mi ricordo di voi, vi guardavo in disparte; eravate un bel gruppo di gente allegra. Tu non puoi rammentarti di me, non mi hai mai guardata bene prima d’ora, né ti sei soffermato a fare due chiacchiere. D’altronde io avevo sempre fretta. Ma continua, ti prego, mi interessa ciò che dici di quel tempo e di quel bar”.
 
Sì, era la metà degli anni ’80, avevo trent’anni allora, amavo guardarmi attorno, stare con gli amici, passare il tempo in luoghi gradevoli: e il Gran Bar era uno di quelli. Talvolta ci si incontrava per l’aperitivo. Era una scusa per fare pranzo. Con un bicchiere di spumante in mano, usando l’altra, potevi arraffare tra la miriade di assaggi distribuiti con cura sul banco: patatine, olive, formaggi, salumi e gamberetti in salsa rosa. Devo ammettere che a volte ho ecceduto un po’, ma ero di casa. Remo, il cameriere, si divertiva e mi faceva l’occhiolino, partecipando alla modesta malefatta. Quando era ora di pagare poi, la cassiera bionda mi diceva “ci si vede stasera”, ed era proprio così”.
 
“Ascoltarti raccontare quei luoghi e quei gesti mi riporta là. In effetti facevi proprio così, lo ricordo bene. Capisco il tuo sguardo triste: erano bei tempi allora, soprattutto per te”.
 
"Già, erano bei tempi. Chissà perché quando il tempo passa e l’età procede pare sempre che quel che è successo ieri è sempre più bello; ma nel mio caso, ahimè, non ci sono dubbi”.
 
“Su questo non posso che approvare, uomo maturo che scruti il passato seduto su quella sedia così ingombrante, tanto diversa da quelle del dehors”.
 
Quella era l’età in cui le auto fanno parte della propria vita: avevo una Dyane allora, andavano di moda le Golf, ma non me ne importava granché e poi quella macchina costava cara. Ma in fondo non erano fondamentali; eravamo un bel gruppo di amici e le auto erano il contorno”.
 
“Dì la verità, ti sarebbe piaciuto avere una Golf, ma non avevi i soldi per comprarla!”
 
Sì mi sarebbe piaciuto averne una, ma a ripensarci oggi, non era poi così importante. Ciò che valeva erano gli amici con cui stavo nel dehors. Mi ricordo bene di Claudio, un vero mattatore, di Carlo, che poi partì per Bologna, di Silvano, che divenne quasi mio parente. Poi c’erano Claudia, Silvia, Marinella, Paolo, che veniva di rado, Roberto, che arrivava con Giulia, e tanti altri. Ci si conosceva quasi tutti, alcuni solo per soprannome. D’estate si arrivava in motocicletta. Sempre lì, sempre all’ombra della Gran Madre. Sempre al Gran Bar, punto di partenza per disdicevoli bravate, fatte di motori potenti e di piccoli cervelli. Cose da uomini che piacciono alle donne. Eravamo fatti così. Eravamo un po’ vivaci, ma oggi c’è ben di peggio in giro”.
 
“Ne so qualcosa io che raccatto di tutto. C’è veramente di peggio, ma non è vero che non usavate il cervello!”
 
Sarà come dici … Comunque sia, quel giorno, quell’ultimo giorno della mia prima vita, l’ultima volta che ho potuto sorseggiare un Aperol, poggiando sui miei piedi e tenendo il bicchiere con le mani, è stato proprio in quel bar, all’ombra della chiesa e dei suoi due angeli che non mi hanno protetto poco dopo. È un bellissimo, estremo ricordo”.
 
“La chiesa non c’entra, son cose previste in un libro già scritto. Io lo so bene, sono del mestiere, non ti angustiare: doveva andare così”.
 
Non so se saperlo mi faccia rabbia o piacere: son passati ventidue anni e non percepisco più né gioia né rancore. Ciò che ricordo bene è che quella domenica mattina ho pagato l’aperitivo, la bionda cassiera mi ha sorriso come al solito e mi ha detto “ci vediamo stasera”. Ma non è stato così. Cinque minuti dopo giacevo steso sull’asfalto. L’auto era sbucata di colpo, non ho potuto evitarla, ho provato, ma... Nessun muscolo si muoveva più, ero allibito e disperato. Ed eccomi qui a parlare con te di quel tempo e di quel bar, seduto su questa brutta sedia a rotelle. Da quel giorno è mia fedele compagna, unico sostegno del mio corpo paralizzato”.
 
“So bene come è andata, per un attimo avrei voluto portarti con me, ma qualcosa di te non ha voluto, hai rifiutato; in quel momento potevi scegliere, non capita a tutti di poterlo fare”.
 
Me ne rendo conto, figura scura che mi stai parlando da quel chissà dove, che forse è fuori o forse vive dentro. Me ne rendo conto, sorella Morte. Ripensando a quel dì, non so se io abbia fatto bene a rifiutare il tuo garbato invito. Non mi rendevo conto di cosa mi aspettasse, volevo solo vivere. Sta di fatto che fu così e indietro non ho più potuto tornare”.
 
“Non ti angustiare, il problema è solo rimandato, ma non è ancora la tua ora, non in questo momento. Mi son fermata a chiacchierare un po’ perché capita di rado di vedere uno sguardo così profondo, triste e lontano. È un periodo in cui la gente vive male e troppo in fretta. Avevo voglia di scambiare due parole e poi ti ho sempre osservato con riguardo. Sei un tipo speciale, hai ancora delle cose da fare per te e per questo distratto mondo. Grazie per la conversazione, ora ti lascio, ho un mucchio di clienti da servire, mi tocca sempre lavorare”.
 
Grazie a te, lugubre figura, in fondo è stato un piacere sapere di queste e altre cose, ma forse trascuri certi lati umani. Ti avevo vista in quel dehors. Eri seduta in fondo, stavi in disparte, avevi lunghi capelli neri e mi guardavi. Presto attenzione al panorama, ma non mi sfuggono le belle donne. Ce n’erano molte nel bar, ma solo tu avevi un che di speciale. Era una sera di luna e stelle. Ero solo, eri sola, eri bella, ma avevi lo sguardo triste di chi non ha mai fatto l’amore in vita sua. Ora capisco. Avrei voluto alzarmi, avvicinarmi ai tuoi pensieri neri, offrirti da bere e un po’ di buonumore, ma ti sei alzata e sei scappata via. Anche tu hai paura di certe cose! Povera, ti carezzerei persino adesso”.
 
“Ecco perché non ti ho voluto, là steso in mezzo alla strada, metti imbarazzo persino ora. Avrei voluto restare quella sera al bar, capire perché avevi sempre un magnifico sorriso. Capisco perché ora guardi lontano, capisco quanto ti manchino il tempo e il gesto, hai la felicità tradita e offesa che ti rode da dentro”.
 
Sì, e mi manca anche il Gran Bar. Come sarà adesso? Non ho mai più voluto ritornarci, mi piace pensare che non sia cambiato, che sia rimasto sempre lo stesso. Se chiudo gli occhi a ponente, intuisco le auto passare: frotte di gente che va di fretta. Stuzzica il pensiero immaginare chi si porta chissà dove a onorare la sera. Sulla destra incombe l’ombra severa della Gran Madre e la larga scalinata. Oltre il corso e le sue vetture rumorose, scorre ancora placido il Po. Se ascolto, posso udire il suo frusciare potente, lento e costante. Se annuso, percepisco quell’odore molle e umido che solo il fiume ha. Torino è sempre là, al di là del ponte. Dal dehors si ammira piazza Vittorio, imponente, maestosa, quasi inquietante, con la sua corona di portici a delimitarne il profilo barocco. Tra un attimo Remo ci servirà il caffè. Arrivederci sorella scura che mi hai riportato tra quei tavolini ordinati, grazie per non avermi ancora reclamato. Sono ancora vivo, seduto, immobile in questo giardino nemmeno così lontano da quel locale e da Torino. Il ricordo è poca cosa, ma molto più di nulla se hai vissuto con gioia almeno allora. E un bacio a lei che non hai più, e il legno, il Claudio, il Po che scorre piano, e il profumo del caffè: te li senti attorno e ancora …”.
 
Carlo Mariano Sartoris

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