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Da "La casa di ghiaccio" di Serena Vitale

Una innocua mania: la morte

Seicentoventi cani e due dozzine di cammelli seguivano Pietro II quando, l’8 settembre 1729, lasciò Mosca per l’ennesima battuta di caccia...”. Sembra l’inizio di un romanzo, di una storia inventata: invece è l’attacco di un libro che narra storie a volte incredibili, ma tutte vere, inclusa quella della Casa di ghiaccio che gli dà il titolo. Serena Vitale, una grande studiosa di letterature e di culture slave, elenca in appendice tutte le fonti documentarie su cui si basano le Venti piccole storie russe (così il sottotitolo) che compongono il bel libro di cui stiamo parlando, pubblicato qualche anno fa da Mondadori con ottimo riscontro non solo di pubblico, ma anche di critica (basti ricordare le entusiastiche recensioni di Pietro Citati e di Fruttero & Lucentini). Venti storie ambientate in Russia fra Settecento e primo Ottocento, con vicende e protagonisti contrassegnati dai più iperbolici eccessi, dalle più inaudite stravaganze e bizzarrie. Fortune, disgrazie, patrimoni immensi conquistati, ereditati, persi al gioco, recuperati; banchetti e lussi inenarrabili, miserie, manie innocenti o criminali, stravaganze, crudeltà, assurdità: tutto è smisurato nelle vicende narrate con stile impassibile e leggero dalla Vitale, che dipinge un affascinante e impressionante ritratto di certi aspetti di ciò che suole chiamarsi la “grande anima russa”.
Tutte le storie si concludono con la morte, non sempre necessariamente bizzarra, dell’eccentrico protagonista. Su di una però vogliamo in questa sede fermare in particolare la nostra attenzione, l’ultima; e il punto non è tanto la morte del personaggio quanto piuttosto la sua vita. L’inizio del capitolo è più che sufficiente a capirne il motivo: “Il signor S. nutriva un amore sviscerato per salme e funerali”. Costui, un pietroburghese che raggiunse nella carriera burocratica il grado di vicegovernatore, non ebbe mai modo, o meglio tempo, di crearsi una famiglia; tutte le sue ore non impegnate nei doveri dell’ufficio erano dedicate all’attività preferita: prendere informazioni presso i fabbricanti di cofani su chi era morto, presentarsi a casa sua con un cambio di biancheria ed un cuscino, lavare il cadavere e trascorrere la notte in veglia leggendo i Salmi; il giorno successivo, al camposanto, sarebbe stato lui l’ultimo ad andarsene.
Quando ebbe la possibilità di mettersi in congedo con una buona pensione lo fece, così da potersi dedicare in modo esclusivo alla propria passione: “Furono anni intensi, ricchi di soddisfazioni”, osserva la Vitale, per poi proseguire il racconto accompagnando il signor S. fino a quando l’età non gli consentì più di scorrazzare per la città dormendo poi spesso scomodamente. A quel punto saggiamente decise di trascorrere tutte le sue giornate in una sola “postazione”, però perfetta per i suoi intenti: il monastero del santo Alexander Nevskij, dotato di due cimiteri dove molti chiedevano di essere sepolti. Lo si vide dunque, per anni, seguire compunto a fianco dei congiunti dello scomparso ogni rito, ogni corteo, ogni inumazione. Lo si vide: non dimentichiamo che tutte le vicende narrate in questo libro (anche quelle molto più incredibili di questa) sono reali. La situazione naturalmente diede modo a S. di imparare a memoria ogni dettaglio dei due camposanti, incluse lapidi ed iscrizioni sulle tombe, da cui l’idea di informarsi sulle vicissitudini di quasi tutti i trapassati ivi presenti, e di raccontarle, se richiesto, ai visitatori del monastero.
E l’autrice non manca l’occasione di inserire una impagabile digressione in cui sono narrate alcune di quelle vicende, trascritte da quelle lapidi. Lasciamo il contenuto di queste pagine al piacere del futuro lettore, citando solo, ad esempio, l’iscrizione funebre talmente laconica o sbadata da non avere neanche il nome del defunto; oppure quella del maggiordomo di Caterina II: “Servì con zelo l’imperatrice russa / e fino alla morte godette del suo favore. / Trasferito, oggi ha nuove mansioni / al servizio dell’Onnipotente”; la storia dell’enorme cassa del generale Suvorov, scagliata come un ariete fra gli stipiti troppo stretti della porta della chiesa, al grido dei veterani “Avanti, ragazzi! Nessuno può fermare Suvorov”.
Torniamo al signor S.: dovrà pur morire anche lui un giorno, pensa il lettore del libro (e forse anche l’eventuale lettore di questo articolo), chiedendosi in che modo egli si porrà di fronte a quel frangente. Niente di particolarmente eccentrico, in questo caso: semplicemente, prevedibilmente anzi, lo farà con la massima cura. A ottant’anni, al sopraggiungere di una grave polmonite, ecco i contatti con l’amico fabbricante di casse, le richieste dettagliate (fra le quali un finestrino di vetro all’altezza della testa), l’attesa. Due anni: troppi. “S. malediceva la propria salute di ferro”, racconta Serena Vitale, alla cui felice mano di storica-narratrice lasciamo volentieri la conclusione: “Una seconda affezione polmonare riaccese in lui le speranze. Scrisse all’amico: preparala, lucidala per bene. L’ultima volta che sono venuto a trovarti ho notato che le maniglie erano un po’ opache. Passaci anche una mano di lacca. Morì due giorni dopo; il vetro del finestrino rivelava un volto radioso”.
 
Franco Bergamasco

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