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Sta per finire anche il tabù della morte naturale?

Il sociologo inglese Geoffrey Gorer in un suo famosissimo saggio del 1955, “The pornography of death”, aveva sottolineato un fenomeno che ha caratterizzato a lungo la “sociologia della morte” in Occidente: la morte naturale (che prima o poi tocca tutti) è diventata “pornografia” e non se ne può parlare, a differenza di quanto accade con quella violenta. Poi, dalla fine degli anni sessanta, la morte naturale rientra a pieno titolo nell’orizzonte culturale dell’Occidente attraverso la concezione biologica della “buona morte”, promossa dalla Medicina Palliativa come “morte senza agonia alla fine di una lunga vita spesa bene”, come vita biologica che si accontenta di svolgere il proprio ciclo vitale e che accetta la morte purché diventi “naturale”, un passaggio biologico dolce.
Ma resta qualcosa di minoritario se perfino nei paesi anglosassoni, dove la Medicina Palliativa si è più sviluppata, sono al massimo il 30% coloro che muoiono “naturalmente”. In realtà, in Occidente la maggior parte delle persone continua a concepire la morte come un “male” suscettibile di annullare la vita unica e irripetibile di chi muore e non come qualcosa di neutro e persino di utile se si viene aiutati a morire alla fine del ciclo vitale e senza una lunga agonia. Con la conseguenza che la morte non è mai “naturale”, ma tende ad essere vissuta sempre come violenta e prematura: non resta che cercare di vivere cercando di non pensare che si dovrà morire. Da un punto di vista culturale ciò si è espresso nei decenni passati fondamentalmente attraverso la quasi totale assenza sui media (eccettuate ovviamente le pubblicazioni di settore) di analisi approfondite sull’industria del funerale e attraverso una rappresentazione “stereotipata” del funerale (rituale, riempitiva e quasi mai consapevole della profonda crisi che ne attraversa i significati al giorno d’oggi) nell’arte tipica di questo tempo storico, il cinema.
Tuttavia qualche cambiamento deve essere in gestazione se un film giapponese ambientato in una impresa di pompe funebri, “Depatures”, vince l’Oscar, e se perfino in un paese tanatologicamente arretrato quale il nostro il giornale dell’estrema sinistra “Liberazione” ha pubblicato il 2 maggio un paginone sul “Tanatorio” (casa funeraria) di Barcellona in Spagna.
Che stia per finire il tabù della morte naturale? Il mio sospetto è un altro: che si può ricominciare a parlare esplicitamente della morte naturale perché si incrina un tabù più moderno (il tabù della fede nell’aldilà che la Scienza imperante tende da un paio di secoli a derubricare in superstizione) e si ricomincia a pensare che con la morte non finisca tutto. Vedremo quali vie prenderà la nostra cultura: potremo così capire quale delle due ipotesi è quella corretta. Comunque sia, una conseguenza è già in atto: abbiamo ricominciato a progettare il nostro funerale!
E tendiamo a farlo sempre più in linea con i valori della contemporaneità e dei cambiamenti che vogliamo apportarvi: “Funerale verde. Mettilo tra le tue ultime volontà. Bara di cartone, sepoltura ecologica in un bosco o in un campo. Ma senza danni ambientali” (Michael Norton, 365 modi per cambiare il mondo, Castelvecchi Editore).
 
Francesco Campione

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