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Funexpo 2008, a Buenos Aires

Don't cry for me, Argentina!

Arriviamo nella capitale argentina il giorno d'inizio della primavera australe. Il Paese ci accoglie con un doppio benvenuto: il «poncho de los pobres» (il mantello dei poveri, così gli argentini chiamano, con la sottile ironia che li contraddistingue, il sole che riscalda tutti gratis e senza distinzioni di sorta) e un venticello gradevolissimo che per i triestini quali siamo, svezzati nelle raffiche dell'amata «bora», è un qualcosa di vitale senza il quale l'esistenza è meno gioiosa. Tanto più che nel caso particolare è necessario che tale indispensabile elemento si manifesti per onorare adeguatamente il nome della città adagiata sulla riva sud del Rio della Plata (che Juan de Solis, sbarcato nel 1516, chiamò, stante le dimensioni gigantesche dell'estuario, Mar Dulce) visto che essa lo trae dall'esclamazione dei primi colonizzatori sbarcati su quelle rive che, accolti dal vento, osservarono che «aquì hay buenos aires!» (qui ci sono venti buoni). In effetti il nome completo della capitale datole da Pedro de Mendoza che fu il secondo, dopo Solis, ad arrivare su quelle sponde è Nuestra Señora de Santa Maria del Buen Ayre. Gli odierni «porteños» («quelli del porto», come vengono abitualmente chiamati gli abitanti della capitale) direbbero oggi «acà» (come nell'amata Napoli dove la dominazione spagnola ha lasciato traccie anche nel parlar quotidiano), avverbio che ha quasi totalmente, in queste terre, sostituito il più classico «aquì» pur essendo le due forme ammesse, con sfumature che non sembra utile in questa sede approfondire, dalla lingua castigliana, quella che comunemente viene chiamata «lo spagnolo». Non è, evidentemente, la sola differenza con la lingua madre parlata in Spagna. A parte tutta una serie di vocaboli poco usati se non addirittura inesistenti in Europa, ciò che colpisce è l'accento tipico degli argentini. Le vocali molto aperte, la «y» che diventa «gi» e il modo di pronunciare la «ll» (qui essa diventa «sc» anziché «gl», come tutti gli studenti di spagnolo avranno appreso, per modo che calle - via - e amarillo - giallo - diventano rispettivamente, in Argentina, «càsce» e «amarìscio» anzichè i più classici «càglie» e «amarìglio»), nonchè il tono meno solenne e scandito dell'originale ne fanno una lingua piana e cantata quasi avesse subito l'influenza degli immigranti italiani che costituiscono assieme alle comunità d'origine spagnola ed a quella tedesca (d'ante e di post guerra) i gruppi più importanti venutisi ad affiancare agli autoctoni. È utile precisare che un terzo, grosso modo, della popolazione porta un cognome italiano. Si tratta di discendenti anche della quarta o quinta generazione, visto che la nostra emigrazione verso il Sud America inizia già alla fine dell'ottocento. Molti dei 27 milioni di connazionali che, nel corso della storia, hanno lasciato la penisola per sistemarsi in tutto il mondo sono giunti in queste terre portando seco abitudini, costumi e «know-how» delle loro origini. Così essi eccellono oggi nella produzione di ottimi vini (soprattutto nella regione di Mendoza, il vigneto del paese) e di ottimi salumi (siamo rimasti sedotti da un salame di Cordoba, che non ha nulla da invidiare ai migliori salami italiani, offertoci dalla Fiori, leader del mercato dei cofani con una produzione annua di circa 40.000 pezzi, e che festeggerà nel 2010 il primo secolo di vita da quando nacque col nome di «La Alessandrina» in omaggio alla città d'origine), nonchè dell'ormai universale mozzarella che si trasforma qui (certamente per un riecheggio di certe pronuncie del meridione) in «muzzarella». I ristoranti italiani sono ovviamente numerosissimi, ed accanto alle paste abituali essi propongono sistematicamente la «milanesa» di vitello impanato anche nella versione riappacificatrice, tra terroni e polentoni, «milanesa napolitana»?! Per quanto riguarda la comunità italiana vale la pena di sottolineare che essa è pienamente e totalmente integrata nel nuovo paese. Tutti si sentono argentini ed amano intensamente quella che oggi è la loro patria senza dimenticare, peraltro, le proprie origini. Abbiamo incontrato tassisti che parlavano in calabrese e camerieri che si esprimevano in veneto. Tutti indistintamente attaccati a filo doppio alla loro bella bandiera bianco-azzurra (anzi, «celeste», come dicono qui) con il sole irradiante nel centro. Bianca come le nevi dell'Aconcagua, la montagna più elevata del continente, e celeste come il cielo ed il mare che circondano, anzi abbracciano, questa terra riscaldata dal sole, non solo quello astrale ma anche quello, metaforico, dell'amicizia. A questo proposito cogliamo l'occasione per ringraziare in questa sede la famiglia Peculo e la collaboratrice da più di trent'anni della stessa, Adriana Di Gneo. Da tutti loro siamo stati accolti con affetto e con sollecitudine. Il lutto che ha colpito, all'inizio di quest'anno, il mondo funerario internazionale con la scomparsa, prematura, dell'amico Alfredo Peculo ha rinvigorito i già solidi sentimenti di stima e di riconoscenza che ci univano. Particolarmente commovente è stato l'incontro con Donna Susana Campanelli, la vedova di Alfredo, e con Ariel, il figlio. Essi continuano l'attività della «Seguros - Assicurazioni - Certeza» (presente con uno stand in fiera) avvalendosi della fedeltà e delle competenze consolidate di Adriana. Un altro momento di intensa emozione è stato quello dell'omaggio reso ad Alfredo nella cappella di famiglia del cimitero di Boulogne. La sua bara, circondata dalle urne contenenti le ceneri degli amati genitori ed appoggiata (il costume cimiteriale argentino ammette che essa sia esposta, non rinchiusa in un loculo od altro) su dei pilastri argentei e sulla quale giace il suo berretto da «gaucho», riceve costantemente la visita di tutti coloro che l'hanno conosciuto ed amato. Regolarmente da tutto il mondo vengono a raccogliersi gli amici di sempre.
Quanto ad Adriana vale la pena di evocare una coincidenza che dimostra quanto strani siano, a volte, i casi della vita. Di solito, incontrando all'estero italiani o discendenti di italiani, la conversazione si dirige quasi spontaneamente verso la città d'origine. Trattandosi, in questo caso, di Isernia, nel Molise, ci è parso interessante ricordare che in quella graziosa cittadina avevamo la consuetudine, in un periodo in cui ci trovavamo spesso sull'autostrada tra Roma e Napoli, di recarci, facendo una deviazione anche lunghetta, al solo scopo (a qualcuno la cosa parrà «originale», per usare un eufemismo) di comperare, in una panetteria della vecchia Isernia, quello che ancor oggi consideriamo (assieme a quello di Cori, città delle colline circostanti Latina dove la leggenda vuole sia nato Ponzio Pilato e dove si produce anche un eccellente olio d'oliva) il miglior pane che ci sia mai stato dato di degustare. Ebbene, ci credereste che la panetteria era quella del nonno di Adriana e che ancor oggi c'è una zia che se ne occupa? Adriana parla con giustificato entusiasmo della propria storia che dimostra come nel brevissimo spazio di due generazioni le opportunità di evoluzione professionale siano, in questi paesi «nuovi», di prima grandezza. Presto, una delle figlie sarà notaio! Ciò spiega, tra le altre cose, il suo amore, come dice lei, per la sua bellissima Argentina, pur serbando in un angolo del suo cuore un cantuccio per il tricolore. Questa Argentina dal nome scintillante anche se pare non vi sia traccia di argento. Questo paese, l'ottavo al mondo per la sua superficie (circa nove volte l'Italia) e lungo 5.000 chilometri dal nord subtropicale (siamo nell'emisfero australe dove il nord corrisponde al nostro sud) al sud gelato di Ushuaia e della Terra del Fuoco. In esso vivono meno di quaranta milioni di abitanti e ancor più milioni di capi di bestiame e di animali di ogni sorta. Dai pinguini del sud al carpincho (il più grosso roditore del mondo, conosciuto in Europa come «Capybara», la cui pelle pregiata, simile a quella dei pecari che però sono suini, serve a produrre accessori di grandissimo pregio) della pampa umida, dai condor delle Ande ai serpenti delle foreste subtropicali del nord. In questi giorni gli equilibri ambientali sono messi in crisi dalla situazione climatica che, anche qui, sta cambiando in modo drammatico. Una siccità quale non s'è vista da più di 150 anni sta colpendo il Paese ed ha già compromesso seriamente la semina, e quindi la futura raccolta, di mais e di grano. Fortunatamente la pioggia ha iniziato a cadere proprio al momento della nostra partenza e c'è da augurarsi che continui a farlo per un bel po' permettendo la ricostituzione delle riserve idriche. Le cascate dell'Iguazù, condivise con il Brasile, purtroppo non sono sufficienti!
In questi territori ricchissimi si sono stabiliti milioni di immigranti del vecchio continente. L'indipendenza (dalla Spagna) risale al 9 luglio 1816. È la data cha dà il nome all'avenida della capitale che è, con i suoi 140 metri, la più larga del mondo. Da allora la crescita è stata sostenuta per più di un secolo. Capitali europei sono affluiti e con essi architetti che hanno modellato le città e soprattutto Buenos Aires secondo criteri prettamente europei. Sembra talvolta di essere in piena Parigi. Banche, ministeri, grandi magazzini (uno, la Galerìa Pacifico, è stato costruito come il Bon Marché parigino), edifici pubblici di ogni sorta danno questa impressione. Perfino la metropolitana, chiamata Subte, ricorda con le carrozze dai lignei sedili (lucidi di storia e di tanti posteriori che li hanno levigati) ancora in funzione sulla prima linea messa in servizio (la «A» inaugurata nel 1913), quella di Londra, prima in assoluto in Europa, e quella di Budapest, prima in Europa continentale e che percorreva tutto il viale Andrassy (uomo politico appartenente alla vecchia nobiltà magiara) che oggi porta nuovamente il nome d'origine dopo essere stato camuffato per quasi cinquant'anni sotto il meno ameno nome di viale della repubblica popolare. Se si va, poi, verso i quartieri residenziali del centro (Recoleta, Retiro, Palermo), lì tira un'aria pariolina (con donne elegantissime e di gran classe, almeno in apparenza) o, verso il Retiro, dichiaratamente nuovayorchese. Le chiese spesso evocano, quando non siano dichiaratamente di stile coloniale, certi edifici religiosi anglosassoni e tali sembrano essere, soprattutto nelle brume autunnali, le opulente periferie residenziali di San Isidro, Boulogne, Beccàr,... . Perfino l'abbondanza di terreni per il rugby dove decine di atleti si contendono il pallone ovale simbolo del gioco, per noi almeno, più bello che ci sia, contribuiscono a consolidare queste sensazioni. Da nessuna altra parte al mondo ci è sembrato di essere così vicini a Blackheath, il comune del distretto di Greenwich, a Londra, dove si trova il Rectory Field, il campo, nel Kent, del club più vecchio d'Inghilterra e dove qualche settimana orsono assistevamo, una pinta di IPA (Indian Pale Ale, una birra del tipo «ale» fatta con malti che ne permettevano una buona conservazione fino all'arrivo nella lontana India) saldamente in pugno, al primo incontro casalingo dei rossoneri di casa contro il Southend on Sea dell'Essex. La sola differenza è che da una parte il terzo tempo, quello più importante in definitiva, si tiene alla club house con numerose pinte di birra alla mano, mentre quaggiù ci si ritrova per l'«asado criollo», la grigliata, vera passione nazionale, accompagnata da ottimi vini della regione, come si diceva, di Mendoza. Tale influenza molto «british» si ritrova anche nelle tenute degli alunni delle scuole che qui, come a Londra o a Madrid, si vestono in divise ciascuna con i colori del proprio istituto (nel Regno Unito è una delle poche spese a carico della famiglia nella scuola dell'obbligo, anche in quella pubblica). Tutti sono fieri di indossarle e a quei colori rimarranno attaccati per sempre. Tanto più strane paiono quindi le discussioni, inutili, che si vanno facendo in Italia dopo che il ministro in carica ha proposto di riesumare i grembiuli scolastici. Nel nostro paese tutto è pretesto per discussioni oziose e nessuno sembra accorgersi che ci sono cose molto più importanti che perdere tempo ad invocare i grandi principi di libertà per denunciare i grembiuli degli alunni o la presenza dell'esercito nelle pattuglie che sorvegliano i siti ad alto pericolo terroristico. Chi è transitato negli aeroporti parigini avrà ben visto le pattuglie composite (gendarmeria, polizia, esercito) che deambulano in quei luoghi spesso allietate da una presenza femminile che conserva la sua «vis» attrattiva nonostante i pantaloni, gli stivali e la mitraglietta sottobraccio. In Francia, che pure di rivoluzioni se ne intende, tutto ciò è stato accettato senza problemi metafisici e soprattutto senza gli sproloqui e le verbosità intellettualoidi di pseudo-filosofi che manifestamente non hanno altro da fare se non consacrarsi ad un ininterrotto onanismo cerebrale. Tutto ciò perchè il buonsenso talvolta, soprattutto al di fuori del Bel Paese, riesce ancora a farsi intendere. Altro esempio quello di Alitalia dove, probabilmente con fondate ragioni, viene evocato il conto che gli italiani dovranno pagare per salvare la compagnia. Coloro che, con altissimi lai e strillando come le vergini sabine, denunciano tale pericolo dimenticano, probabilmente in malafede, che per moltissimi anni gli italiani tutti han già pagato un sacco di soldi per far sopravvivere un baraccone (uno fra i tanti) di sprechi dai servizi scadenti e dal personale pletorico (quante decine di piloti per qualche cargo?) e che in condizioni di mercato normali, e cioè non sovvenzionato dallo stato azionista con i quattrini del contribuente, avrebbe dovuto chiudere bottega già da un bel pezzo. Ed allora, di grazia, finiamola con le sceneggiate, e rimbocchiamoci le maniche per il bene del nostro Paese. Gli argentini questo lo sanno e sanno anche che in Italia spesso si parla, con la spocchiosa sufficienza degli imbecilli, di situazioni all'argentina. Farebbero bene costoro, questi soloni, a riflettere su tutte le situazioni «all'italiana», a cominciare dalla strapagata (naturalmente in questo caso non si tiene conto della media europea dei salari dei parlamentari, e fossero solo quelli) classe politica da burletta cui viene fatto, in moltissimi casi, riferimento in paesi terzi e non precisamente in termini elogiativi. Come prescrive la vecchia saggezza napoletana, sarebbe bene che ciascuno si facesse... quello che deve fare. Essi, gli argentini, soffrono di tanta alterigia, venendo tali considerazioni da un paese che ha pochi titoli, ammesso che ne abbia anche solo alcuni, per pontificare e soprattutto da un paese e, più in generale, da un continente al quale sono legati da vincoli affettivi e culturali profondi. Gli argentini hanno voglia di Europa, più che voglia di America del Nord (in misura ancor maggiore dopo i risultati catastrofici del capitalismo alla Wall Street dell'ultimo ventennio). Solamente che, per una serie di incomprensioni e talvolta anche di cattiva volontà da ambo le parti, le cose non progrediscono. Uno dei problemi maggiori, proprio in particolare all'Argentina, riguarda il vessatorio sistema doganale. Non è la prima volta che ci capita di dover pagare, e profumatamente, per importare della merce in quel paese. È la prima volta, tuttavia, che ciò ci è toccato per poche decine di depliants e di cataloghi non commercializzabili da esporre in fiera. In passato abbiamo avuto campioni di merce senza valore bloccati alle dogane di Ezeiza, l'aeroporto intercontinentale della capitale, fino all'ultimo pomeriggio di fiera, dove sono arrivati dopo il versamento di centinaia di dollari. Come dire che tutti i soldi delle spese logistiche (spazio in fiera, viaggio, diarie, ...) erano stati buttati al vento. Lo stesso è accaduto quest'anno ad un espositore colombiano che ha dovuto pagare 5.000 dollari per i diritti doganali delle merci esposte in importazione temporanea da aggiungere ai tremila delle spese di trasporto e a tutto il resto, perdendo anche completamente la prima giornata di esposizione.
E Forgione, il produttore italiano di cofani, ha avuto la propria merce liberata solo in extremis dopo dieci (!) giorni di attesa nel famigerato aeroporto. Senza peli sulla lingua, queste pratiche assomigliano fortemente a una forma di pirateria organizzata. Siamo, per farla breve, al sistema delle gabelle medievali ed è chiaro che un qualsiasi industriale che avesse l'idea di aprire un nuovo mercato in quel paese (e di solito il primo passo, il primo test orientativo volto a saggiare il terreno lo si fa proprio in ambiente fieristico) non ci metterà molto a prendere la decisione di andarci soprattutto per cacciare o per fare il turista, ma di certo non per avviare quegli affari che produrrebbero, in definitiva, ricchezza anche per gli argentini. E non è da credere che ciò avvenga dopo il disastro economico e finanziario del 2001. Le esperienze evocate risalgono anche a periodi precedenti. È ben vero che quella crisi che ha colpito anche migliaia di risparmiatori italiani (che pur potevano immaginare che dei bond di tale rendimento dovessero proprio per questo essere rischiosi: i grossi profitti comportano, ancora una volta il buon senso, grossi rischi; non occorre essere un mago della finanza per rendersene conto) ha avuto conseguenze nefaste per il paese sia per ciò che è della sua immagine internazionale che per le ripercussioni all'interno. Migliaia di risparmiatori si sono ritrovati sul lastrico. In tali condizioni la violenza è esplosa. Attualmente si fa un gran parlare della pericolosità della capitale dove non sono rari gli attacchi a mano armata anche in pieno giorno ed in pieno centro. Spesso ci scappa il morto. Il mercato della blindatura dei veicoli, dei sistemi di protezione delle abitazioni, e di tutti i parafernalia della sicurezza è fiorente. La gente ha modificato le proprie abitudini di comportamento e amici locali mi affermano categoricamente essere oggi Buenos Aires più pericolosa di San Paolo in Brasile. In realtà un numero recente del maggior quotidiano «La Naciòn» (che costa in settimana 50 centesimi di euro e che con un sovrapprezzo giornaliero di 15 centesimi fornisce il «Corriere della Sera» integrale e una «Gazzetta» ridotta di quattro pagine; entrambi non vendibili separatamente) consacrava una pagina intera a tale situazione che sembra essere particolarmente grave. Talchè la prudenza consiglierebbe di andare a passeggio senza monili, oggetti preziosi o somme di denaro importanti. L'apparecchio fotografico sarebbe da usare con la massima discrezione come pure i telefonini. Forse anche per questo molti abitanti della capitale che possono permetterselo preferiscono trascorrere quanto più tempo possibile nella dirimpettaia e sonnacchiosa Montevideo (tre ore di battello sul rio della Plata) in Uruguay dove la vita è molto più tranquilla e dove le spiagge (famosa Punta del Este con i suoi casinò) o le città coloniali intatte dell'interno (come Colonia) offrono un'oasi di pace e di tranquillità. Ciò detto, è ancora possibile deambulare per la grande città per vivere 24 ore su 24 nella zona pedonale di Florida (infestata purtroppo da numerose peripatetiche in diuturna e laboriosa contrattazione commerciale) o meglio ancora per andare a prendere l'aperitivo nel glorioso caffé Tortoni, aperto nel 1858 e che per anni ha accolto letterati, artisti e uomini politici, ma che purtroppo oggi accoglie turisti in bermuda e scarpe da tennis (includendo in tale categoria tutti i calzari sportivi dei quali sembra non si possa fare a meno) che frettolosamente si siedono soprattutto per fotografarsi mutualmente in un allucinante lampeggiare di flash che scoraggia chi vorrebbe leggere con calma un giornale o una rivista letteraria o quantomeno qualcos'altro che uno dei vari giornalucoli consacrati al gossip, ai seni o, per dirla come si usa oggi, alla parte B di tale o tal'altra «velina». Tra di esse le più intelligenti osservano diligentemente quel vecchio detto spagnolo secondo il quale è meglio passare per scemi stando zitti piuttosto che dimostrare inequivocabilmente di esserlo aprendo la bocca. Complemento utile all'altro che vuole che la madre dei c.....i sia sempre incinta. Peccato che la globalizzazione abbia portato a tali conseguenze riducendo considerevolmente il piacere di ordinare una «Hesperidina», un aperitivo tipicamente locale a base di corteccia di arancia amara capace, malgrado il nome che vagamente richiama una specialità farmaceutica e il flacone dal look molto «vintage» anni ruggenti, di dissetare, addizionato di selz e di abbondante ghiaccio, e soprattutto, grazie ai princìpi amari in esso contenuti, di stimolare l'appetito. Dopodichè ci si potrà dirigere, dopo aver dato un'occhiata alla casa Rosada sede della Presidenza della Repubblica e, poco più in là, alla nave scuola della marina argentina la «Fragata Sarmiento» (un po' l'«Amerigo Vespucci» della situazione), verso il quartiere di San Telmo, la zona «bohème» della città dai palazzetti un po' vetusti, dai negozi di antiquariato (cari! in rapporto al costo della vita; è una delle conseguenze nefaste di internet e di e-bay) e dai ristorantini che numerosi popolano la plaza Dorrego, simile a Montmartre (anche per la presenza di «artistes de la rue») e le stradine adiacenti. In uno di questi, possibilmente una «parrilla» (leggi: parrìscia), ci si fermerà per fare il pieno di proteine animali con un «bife de lomo», (filetto) di 400/500 grammi preparato secondo le regole, numerose ed imprescindibili, dell'arte da un Maestro Parrillero che tra agnelli e capretti crocifissi, e per ciò stesso sistemati su di una parrilla verticale, troverà su quella piana il pezzo richiesto che l'intenditore chiederà «jugoso» ed accompagnato dai rituali «chimichurri». Si tratta di una salsa a base di aglio, aceto, olio, origano, pepe, peperoncino, che accompagna le carni grigliate. Per molti anni, ma si parla di trenta o quarant'anni fa, un ristorante di Sagrado d'Isonzo, nel goriziano, proponeva con pubblicità, anche radiofoniche, «pollo alla griglia con cimiciùri». Tutti si chiedevano che cosa mai fossero questi cimiciuri che facevano, di primo acchito, pensare alle cimici. Si trattava certamente del ristorante di un emigrante ritornato in patria e postosi, vero antesignano, all'avanguardia di quella che oggi, con un termine orribile proprio dell'antropologia e mutuato dall'inglese americano, viene definita «cucina etnica». Noi preferiamo chiamarla cucina straniera con l'aggettivo specificativo del paese.
Uscendo, satolli, dalle mani esperte del «parrillero» non sarà inutile, per digerire e per darsi una sferzatina anti-sonnolenza, concedersi un momento di pausa per assorbire una infusione di «yerba mate» (leggere: gièrba màte), la bevanda del gaucho, il cow boy della pampa, e di tutta l'Argentina. Sarebbe troppo lungo parlare nel dettaglio di tale pozione e del rituale nonchè di tutto il simbolismo che accompagna la sua assunzione. Per gli argentini il mate è l'infusione vitale per iniziare la giornata ed arrivarne alla fine. «Los gauchos vivìan a mate y asado». Così era e così continua ad essere. Purtroppo in Europa è quasi impossibile trovare un luogo dove lo si prepari correttamente e l'unica soluzione sta nel farselo da soli. Così, tirando nella «bombilla», la cannuccia, oggi metallica, filtrante le energie ritorneranno ed il pensiero si farà più acuto e rapido. Giusto quello che ci vuole prima di affrontare la «Boca», il quartiere del porto occupato un secolo fa quasi completamente dai «xenezes», i «genovesi», quegli immigrati liguri tra i quali si trovavano quasi tutti i fondatori del famosissimo club giallo-blu del Boca Juniors (chiamati, per l'appunto, i «xenezes»), la squadra di Maradona che ancor oggi riceve i rivali nel suo antro infuocato: la «Bombonera» tutta dipinta di giallo e blu e così chiamata perchè assomiglia ad una scatola di cioccolatini. Ma l'accoglienza non è molto dolce in generale e diventa ostile e, a quanto ci viene detto, francamente pericolosa per il lancio di sassi anche di taglia cospicua, quando sbarcano quelli del River Plate, gli eterni ed odiati rivali del derby cittadino. Di quello che conta, visto che nella grande Buenos Aires (una dozzina di milioni di abitanti) di squadre di prima divisione ce ne sono tante a cominciare dal famoso, per gli interisti, Independiente del rione di Avellaneda. E poi il Racing, il Tigre, ... . Quanto a Maradona, il personaggio, pur discutibile per tanti aspetti (Adriana, con cui se ne parlava, considera, a giusto titolo, che un uomo con gli attributi non avrebbe esitato un attimo a riconoscere un figlio nato al di fuori di un matrimonio, come del resto hanno fatto, aggiungeremo noi, reggenti di principati vicini all'Italia o re in carica di paesi europei), rimane un mito. Immagini, foto, statuine coprono la città e soprattutto la Boca. Il Creatore ha probabilmente messo nei piedi del «pibe de oro» quello che gli ha tolto dal cervello. La concorrenza più rude nell'adorazione collettiva (lasciamo da parte i politici, Peròn in testa) gli viene da un altro mito fondatore dell'Argentina moderna: Carlos Gardel, il padre ed il re del Tango. Egli, francese di Tolosa, autore ed interprete di riconosciuti capolavori del genere (Mi Buenos Aires Querido, Volver, Mano a Mano, ...) viveva in una casa, non eccessivamente lontana dal Palais Rouge dove s'è tenuta l'esposizione funeraria, che è oggi diventata il museo Carlos Gardel. Tutto il quartiere evoca il personaggio: affreschi sulle case, pubblicità, decorazioni e così via. Scomparso nel 1935, a quarantacinque anni in un incidente aereo al decollo da Medellìn in Colombia, egli rimane ancor oggi più vivo che mai. La sua tomba si trova nel cimitero della Chacarita, uno dei più grandi al mondo, dove fu inaugurato più di un secolo addietro il primo forno crematorio del paese (l'altro cimitero della capitale, la monumentale Recoleta, è molto più piccolo: in esso riposa, nella cappella della famiglia Duarte, Evita Peròn Duarte, ma su questa necropoli assolutamente straordinaria ritorneremo nei mesi prossimi con un articolo ad essa esclusivamente consacrato) e la statua che la orna porta sempre tra le dita una sigaretta accesa. Il Nostro era un fumatore accanito (i tempi erano meno rudi per gli amatori della «nicotiana tabacum») ed i fedeli pervicacemente continuano, tre quarti di secolo dopo la sua morte, a sostituire il mozzicone appena spento di una sigaretta con una nuova accesa.
Anche sul tango, come sul mate, ci sarebbe da scrivere un libro e molti in effetti sono stati scritti. Saremmo portati a dividere il soggetto in due tronconi: quello da spettacolo, ad uso dei turisti, e quello delle «milongas», i pomeriggi danzanti che vedono affluire persone di tutte le età pronte a lanciarsi sulla pista per eseguire le complicate, tortuose e talvolta ginniche figure della danza nazionale. In questo gruppo potremmo includere anche i danzatori di strada che si esibiscono, non senza successo, davanti ad un pubblico numeroso. I tanghi da show vengono eseguiti nelle «tanguerìas», locali con tanto di palcoscenico dove corpi di ballo di ballerini e «bailarinas»  che possono raggiungere anche le cento unità si producono in spettacoli dalle coreografie professionali. Un po' come il «Lido» o le «Folies Bergère» a Parigi. Il sistema di funzionamento è lo stesso. Il biglietto di ingresso (abitualmente di 180 pesos, al cambio d'oggi una quarantina di euro; per informazione un litro di gasolio vale alla pompa 2,5 pesos e cioè meno di 60 centesimi) dà diritto a due consumazioni. Alcuni propongono anche una cena per una cinquantina di pesos. Tutta la panoplia del turista si mette allora inesorabilmente in moto: autobus, foto all'ingresso e all'uscita e tutto il resto. C'è a chi piace ed è bene così. Soprattutto per i tour operators! Noi preferiamo di gran lunga l'atmosfera decadente sì ma quanto più «vera» della milonga. Abbiamo avuto la fortuna di capitare, proprio alla vigilia del nostro rientro, in una pasticceria, la «Confiteria Ideal» all'angolo della Suipacha e di Corrientes, una delle arterie principali della città. Al primo piano di tale locale c'è un'ampia sala con alte colonne e decorazioni lignee. Poco dev'esser cambiato dai tempi di Gardel. Forse la tensione elettrica. Lì sempre accompagnati dalla fedele «Hesperidina» (un «must» ormai che, ripetiamolo, non è un antireumatico) abbiamo degustato, è il caso di dirlo, lo spettacolo dei porteños celebranti la sacralità della danza nazionale. Persone anziane, anzianissime, incerte sulle gambe che, il tempo di un tango, sembravano rivivere ritrovando gli uomini il fiero portamento dei loro anni verdi e le «mujeres» la carica seduttiva in loro innata. Molte di esse indossando abiti probabilmente d'epoca. Tutti consapevoli che non di qualcosa di futile si trattava quanto piuttosto di una sorta di cerimonia, di cui essi erano gli officianti, intensamente e quasi dolorosamente, diremmo, vissuta come spesso sono le storie di amore e seduzione. I lati comici che pur ci sono (dal nostro punto di vista, beninteso, come quel signore di mezza età compitissimo dal capello corvino - anche troppo per non suscitare sospetti di «Grecian», nota tintura capillare; perchè privarsene dopotutto se anche personaggi di primo piano del nostro microcosmo politico sembra, stando alle apparenze, che ne facciano abbondante uso - e dalle scarpe bicolori bianco-nere assolutamente inenarrabili, oppure quella signora di età questa volta senza mezze misure che per poco non si spezza il femore volendo alla fine della danza allungarsi in quella figura, ben nota, nella quale la donna, quasi si sottomettesse, si abbassa, stendendo al massimo uno dei due arti inferiori, l'altro flesso al ginocchio, mentre il braccio teso porge la mano a quella, accogliente, del cavaliere eretto e superbo) non compromettono il valore sacrale, quasi iniziatico, del tango.
Poche danze corrispondono così intimamente al vissuto e alla memoria collettiva di un popolo. Come dicevamo in precedenza il periodo «aureo» dell'Argentina, che con la generazione del 1880 aveva raggiunto una posizione di privilegio, anche economicamente, nel mondo dell'epoca rafforzata, inoltre, sul piano della democrazia dalla legge elettorale del 1912 del Presidente Roque Sàenz Peña, tale periodo aureo prese fine, come sottolineato da Mariano Grondona in un articolo de «La Naciòn», col colpo di stato del 1930. Da allora il paese vive un declino che prosegue ancor oggi. Le esperienze del peronismo, della giunta militare (che, come quella greca a Cipro, è caduta nel tentativo, tragicamente conclusosi con molti morti e reduci che ancor oggi manifestano davanti al palazzo dello stato maggiore chiedendo il riconoscimento delle loro sofferenze, di recuperare dagli inglesi le isole Malvinas alias Falkland per i sudditi di sua maestà britannica) fino all'attuale presidenza della discussa Cristina Kirchner succeduta, cosa abbastanza atipica, al marito e fortemente perturbata da una storia di una valigia piena di dollari intercettata dalla dogana all'aeroporto della capitale in provenienza da Caracas - fondi di Chavez per finanziare la campagna della presidentessa? storia all'italiana? - passando per la crisi del 2001, tutto ha fatto sì che il travaglio, il tormento di un popolo si sia trasmesso di generazione in generazione. È un po' lo stesso tormento del tango ed è per questo che potremmo pensare che tra le due cose vi sia un rapporto più o meno evidente. A pensarci bene questo spiega forse anche la grande stagione letteraria di quel paese. Scrittori di fama mondiale come José Hernàndez, Ernesto Sàbato, Jorge Luis Borges, Julio Cortàzar non nascono per caso. Essi sono frutto del loro tempo e un parallelismo ci pare possibile con certe regioni del nostro paese egualmente travagliate per motivi storici e sociali e terre di grandissimi scrittori. Penso, alle estremità della penisola. Da una parte Trieste (ci si arriva sempre!), con Svevo, Saba, Magris, Tomizza ma anche Quarantotti Gambini, Voghera, Bobi Bazlen ed il poeta dialettale Virgilio Giotti. Dall'altra la Sicilia e l'immensità, nel disordine, di autori come De Roberto, Quasimodo, Vittorini, Pirandello, Sciascia, Verga, Brancati, Capuana, Gesualdo Bufalino per i quali raccontare la loro terra bellissima ha significato spesso fare i conti con una storia niente affatto lineare.
Ed ancora, perchè la vita di un popolo, che è come quella di un individuo, non sarebbe all'origine dell'inabituale fioritura di decine di psicologi argentini che da Madrid a Londra e da Parigi a Roma hanno occupato il vecchio continente? In fin dei conti assieme ai calciatori, ai giocatori di rugby, di polo ed ai maestri di tango essi costituiscono un «materiale» da esportazione di prima qualità.
Non potremmo ricordare questo soggiorno bonaerense senza ricordare un paio di personaggi, di quelli che si incontrano quasi casualmente e lasciano più che la foto davanti al Colosseo, che rimane sulla carta, una traccia molto più profonda nella mente e nell'anima. Il primo è un lustrascarpe che ogni mattina alle 8 si piazza col suo scranno (ben diverso, come il prezzo della prestazione, da quelli, veri troni dai lucidi ottoni, degli alberghi USA) all'angolo tra la calle Lavalle e la avenida 9 de Julio. Essendo di origini anche meridionali è rimasto in noi il piacere atavico, vagamente sensuale, della «pulizziata» alle scarpe di primo mattino. Individuato il nostro non l'abbiamo più mollato per tutta la durata del soggiorno. Tant'è che, la confidenza instaurandosi, un giorno egli ci chiese se ci interessassimo di calcio. Alla mia risposta affermativa andò oltre per sapere se seguissimo il percorso dei calciatori sudamericani in Europa. Le cose facendosi più complicate rispondemmo ancora una volta per l'affermativa sentendo tuttavia il dovere di precisare che le conoscenze si limitavano essenzialmente a quelli operanti nel campionato italiano, francese, spagnolo ed inglese. «Ed in Olanda conosce Suarez?». «No, con chi gioca?». «L'Ajax di Amsterdam». «È un suo amico?». «No (con non dissimulato orgoglio), è mio figlio». «Ah complimenti!». «Ed il mese prossimo se ne viene qui per giocare con la nazionale uruguayana contro l'Argentina. Ha ventuno anni e da due è in Olanda. Sa, noi siamo uruguayani di origine catalana ed io, passati da poco i cinquanta dopo tutta una vita passata nella ristorazione, mi son trovato fuori dal giro e a quell'età ritrovare lavoro è impresa quasi disperata. Perciò ogni mattina vengo qui a farmi la mia giornata e alle quattro mollo». Il pudore ci ha impedito di chiedere se il figlio in qualche modo l'aiutasse. Quasi leggendo nel nostro pensiero o più probabilmente decifrando, con l'antica consuetudine affinata da anni di contatti con gli estranei, l'interrogativo che si nascondeva dietro la nostra faccia, impassibile nelle nostre intenzioni ma di facile lettura per lui, aggiunse: «Mi manda ogni mese qualcosa, ma preferisco venire qui lo stesso. Almeno mi sento vivere». Peccato dover partire. Sarebbe stato bello andare con Suarez padre allo stadio ed assieme a lui tifare per suo figlio! Il Signor Suarez esercita la sua attività, onorevolissima, davanti ad un negozietto sempre chiuso al mattino. Protetta da una griglia a maglie fitte, la vetrina alloggia vecchi souvenir coperti di polvere. «Signor Suarez, ma, mi dica, questo negozio dietro di lei è definitivamente chiuso?». «No, quando mai? Apre ogni giorno dalle sei di sera alle due del mattino ed a tenerlo è una vecchietta di 84 anni arzilla e vivace come poche persone». Alle dieci di sera dello stesso giorno entriamo nel negozio. Dopo l'esame di vari souvenir, il ghiaccio della diffidenza (di notte ognuno è un criminale potenziale) si rompe. La curiosità essendo femmina tutte le domande attese escono: «Che fa? Da dove viene? Ha famiglia (questo avrebbe dovuto metterci in guardia)? Quante lingue parla? Quali?». All'ultima domanda sentendoci rispondere «Un po' di greco» sgrana gli occhi proferendo un invito perentorio «Mi dica qualcosa» al che, banalmente «Milàte elinikà? Parla greco?» Raggiante con lo sguardo pieno di gioia: «Nè, ìme elinìda! Sì, sono greca!». Non racconteremo il seguito della conversazione un po' in greco e molto in spagnolo ma crediamo di essere usciti dal negozietto con qualche souvenir, con le benedizioni, cristiano ortodosse, dell'anziana signora e con la gioia mista alla speranza di averle allungato anche di qualche minuto la vita e l'egoistico auspicio di aver fatto un passettino sulla lunga ed impervia strada che dovrebbe portarci in Paradiso. Morale della storia: i greci, curiosi, anche quando nascono in Argentina chiedono «Èhete ikoyiènia? Avete famiglia? (in napoletano: tenete famiglia?)».
Come si diceva la prima edizione di Funexpo, voluta dalla Fadedsfya (Federaciòn Argentina de Empresas de Servicios Funerarios y Afines), una delle due federazioni argentine presieduta da Jorge Bonacorsi, s'è tenuta al Palais Rouge della capitale nel quartiere di Palermo Vecchia.
In un ambiente estremamente funzionale sviluppantesi su tre piani gli espositori, una cinquantina (non molto numerosi secondo i nostri standard, ma bisogna tener conto che si tratta di una prima edizione) hanno avuto modo di presentare i propri prodotti e servizi a molti visitatori provenienti dall'Argentina e anche da molti paesi dell'America Latina. È così che abbiamo rivisto con immutato piacere vecchie conoscenze come Tatiana Milena Osorio (felicitazioni, anche se tardive, per il matrimonio!) dalla Colombia, Pablo Cevallos dall'Ecuador (anche se a Miami la maggior parte del tempo - attualmente impegnatissimo nell'organizzare per la primavera prossima a Rio de Janeiro una fiera funeraria virtuale con, se abbiamo ben capito, dei computer al posto degli stand), Manuel Acevedo dal Guatemala, Paulo Coelho dal Brasile, Loreta Tamborrel del grupo Naser, uno dei giganti funerari, dal Messico. E poi ancora Ricardo Guedez dal Venezuela e Teresa Saavedra dalla bella Cochabamba in Bolivia e Juan Manuel Lopez Moa da Portorico. Senza dimenticare Dario Loinaz, argentino che da vent'anni vive a Santos, in Brasile e che quest'anno, da giramondo inveterato, è venuto a trovarci a Bologna. Li rivedremo tutti, o quasi, tra qualche giorno in Florida ad Orlando per la convention della NFDA. Insomma il tasso di internazionalizzazione è stato elevato, il che ci ha consentito di inaugurare nelle migliori condizioni il nuovo logo ed i nuovi supporti di Tanexpo che da qui a marzo 2010 ci accompagneranno nella campagna che è stata lanciata e le cui prossime tappe saranno gli Stati Uniti (a metà ottobre ad Orlando) seguita dall'Olanda, da Mosca in Russia alla fine dello stesso mese ed, in novembre, da Lione a metà mese e Varsavia alla fine. Il 2009 sarà poi ricchissimo di eventi, ma su di essi ritorneremo al momento opportuno. Funexpo, la cui organizzazione è stata curata nei dettagli da Josè Antonio Flores, segretario della federazione e titolare del Grupo Flores a San Miguel de Tucumàn, non nasconde le proprie ambizioni dichiarando apertamente di voler diventare in tempi brevi l'evento funerario più importante di tutta l'America Latina con una frequenza biennale per l'esposizione ed annuale per le conferenze e per i seminari di aggiornamento. In ogni caso l'organizzazione è stata di eccellente qualità anche dal punto di vista dei seminari. Molti relatori e sala delle conferenze quasi sempre piena. Ancora una volta abbiamo dovuto, con sommo rincrescimento e frustrazione, constatare la differenza abissale che separa i comportamenti dei clienti americani (includendo in essi anche quelli del nord America che ben conosciamo) da quelli italiani. Lì sale piene e partecipazione da parte di operatori vivamente vogliosi di migliorare la propria professionalità. Da noi ostentata sufficienza. Vien da pensare che tutti sappiano già tutto e che non vi siano margini di miglioramento. Cosa sulla quale ci permettiamo di sollevare qualche dubbio visto che chi scrive, pur non essendo imprenditore funerario, ha avuto l'occasione di vedere molte imprese in tutto il mondo e può spassionatamente affermare che, a parte le eccezioni che sempre ci sono, i servizi funerari del nostro paese potrebbero, volendo, migliorare notevolmente le loro prestazioni qualitative. Ma apparentemente in Italia tutti sanno già tutto e non hanno bisogno di formazione continua non solo alle problematiche tecniche del servizio, ma anche a quelle gestionali, di marketing e di pianificazione strategica oltre che alla formazione del personale volta a proporre un servizio sempre più competitivo a tutti i livelli. Che i partecipanti, poi, siano venuti, così numerosi e da tanto lontano, è dovuto semplicemente al fatto che, viste le dimensioni del continente, tutte queste persone sono abituate alle grandi distanze e che quindi il farsi cinque, sei o otto ore di aereo non pare una cosa eccessivamente onerosa sul piano logistico. C'è anche un altro fattore che evidentemente gioca un ruolo decisivo: la lingua comune, pur con i diversi e divertenti, quando si riconoscono, accenti regionali, con l'eccezione del Brasile i cui rappresentanti tuttavia riescono senza grossi sforzi a comunicare con i colleghi.
Per quanto riguarda i prodotti segnaleremo la presenza, accanto ad altri, minori, di due grossi costruttori di cofani argentini: Fiori, il leader, che occupa quasi il 10% del mercato, e Heccar. Entrambi hanno presentato una varietà di modelli cha spaziava dalle classiche forme sudamericane (ovali e conchiglie) a quelle americane fino agli spallati di stampo europeo. A differenza di quanto accade in Spagna (dove l'impellicciato la fa da padrone) i cofani argentini sono costruiti in massello anche per la disponibilità enorme delle foreste del continente che offrono essenze di ogni genere (molto usato il cedro). Come non sottolinare poi la presenza di Forgione che, con la sua filiale Forgione Iberica, è riuscito ad entrare su di un mercato di accesso palesemente difficile anche per ragioni di costi. La scelta del segmento di qualità è in defintiva l'arma che ha permesso all'impresa pugliese di inserirsi sul mercato, stando al dire di Francesco Forgione nel corso di una lunga conversazione avuta con lui alla fine dell'esposizione all'ora di tirare le somme. Da segnalare infine, per chi avesse avuto l'occasione di conoscerla, la chiusura, da un paio d'anni, della storica ditta Ceriotti di Pergamino in Argentina. La madre Irma avendo raggiunto una certa età ha deciso di ritirarsi e la figlia Mariela, che avevamo visto a Modena quattro anni orsono, essendosi nel frattempo sposata, ha preferito consacrarsi unicamente alle gioie della famiglia e, da buona amazzone argentina, ai numerosi cavalli che alleva nella sua «finca». Un caro saluto quindi alle Ceriotti, madre e figlia, di cui serbiamo un caro ricordo.
Tra i carrozzieri interessante la produzione di Furgocar anche se con modelli inabituali per i nostri gusti. Buona presenza dei gruppi che gestiscono i parchi cimiteriali privati. Si tratta di qualcosa che praticamente non esiste in Europa, con l'eccezione della Spagna, e che sanziona, a nostro modo di vedere (non dubito che ci sia chi ha opinioni diverse) uno stato di fatto che non sa liberarsi da un approccio conservatore e statalista. Molte le compagnie di assicurazione, tra le quali ricorderemo ancora una volta la Certeza del rimpianto Alfredo Peculo, cui è stata intitolata la sala delle conferenze e nella quale in apertura di manifestazione, in un clima di intensa commozione che non ha risparmiato Jorge Bonacorsi (obbligato a troncare il suo intervento a causa della spinta emozionale dirompente), sono state consegnate due targhe alla Consorte Susana e al fratello, Ricardo, noto tanatoprattore della capitale in seno all'azienda, la Cocherìa Paranà, fondata dal fratello e da questi venduta al gruppo statunitense Stewart prima che quest'ultimo la cedesse a sua volta a Funespaña. L'attuale responsabile della Cocherìa è Daniel Carunchio, nipote del rimpianto Alfredo.
Molti i fabbricanti di candele, lumi, accessori (croci, supporti, candele), ma soprattutto importante la presenza di costruttori di urne e di forni crematori.
Ci sembra che la novità più evidente nel panorama funerario dell'America Latina sia, come succede in Europa, la crescita costante della cremazione. Ben tre produttori di forni locali erano presenti. Tra di essi la Lindberg Argentina, la cui responsabile delle vendite, Maria Cristina Pecile, affascinante signora di origine udinese ha, nel corso di un applaudito intervento, fatto la storia della cremazione nel suo paese. Attualmente vi sono in funzione 85 unità. La maggior parte, una sessantina, sarebbe stata installata dalla Incol, un'azienda locale diretta dall'Ing. Luis Mercalli.
La Lindberg, dal canto suo, ha costruito parecchie decine di impianti in tutto il Sud America dalla Colombia, dove la pratica è in crescita esponenziale (vi sono anche fabbricanti locali) a Portorico, dal Venezuela al Brasile. In quest'ultimo paese le cose cominciano appena a muoversi. Non c'è dubbio che nei prossimi anni le aperture aumenteranno in maniera spettacolare stante l'orientamento generalizzato in favore, per le varie e note ragioni, della pratica crematoria e soprattutto tenendo conto delle enormi disponibilità finanziarie del paese. Ad oggi il Brasile conta soltanto quindici unità. Quando si pensi che la popolazione è quasi il quintuplo di quella argentina ed i forni sono 15 il rapporto è di uno a trenta. Esso è destinato a ridursi, anche se un intervento dei costruttori europei pare difficile considerando i costi e le normative anti inquinamento molto meno stringenti nell'emisfero sud (o perlomeno in quella parte di esso che costituisce la ispano America).
Da ultimo vorremmo segnalare la presenza di Jaime Sànchez, il produttore colombiano di articoli in inox (barelle, tavoli, prodotti da tanatoprassi, anche una originale caffettiera per persone numerose), vittima delle angherie doganali di cui s'era precedentemente parlato e che conta di presentarsi a Bologna nel 2010. D'altra parte molti impresari sono pronti a venire in Italia. Lo sarebbero molto di più se la federazione organizzasse un viaggio di gruppo, ottimizzando così le spese logistiche, in occasione di Tanexpo 2010. Insisteremo presso gli amici di laggiù offrendo loro anche la nostra massima collaborazione per ogni supporto necessario.
Un saluto particolare vada a David Perrone, un simpatico giovane, gerente della Neo-Sepelios, società da poco costituita che fornisce lumi, candele, fotoceramiche ed altri prodotti ornamentali parte dei quali già in provenienza dall'Italia.
Un ringraziamento, per finire, a Hector Cavagliato, il direttore della rivista della Fadedsfya che ha fatto largo spazio a Tanexpo sull'ultimo numero della stessa distribuito in fiera. Hector, che abbiamo incontrato per la prima volta a Chicago nel 1993, è di origine piemontese e ricorda sempre con piacere i viaggi che fa per render visita ai parenti nella regione d'origine. È ben vero che attorno a Torino esistono decine di piccoli comuni molti dei quali, come si deduce dai cartelli stradali esposti, sono gemellati con cittadine argentine dove, verosimilmente, si erano stabilite le persone provenienti da quei luoghi. I legami che uniscono queste nostre due terre sono fitti e ben radicati. A noi l'obbligo di rafforzarli nel migliore dei modi.
 
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