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DON MARINO

Don Carlo Marino parlava sempre con Dio, ma Dio non gli rispondeva, manco a pregarlo.
Don Marino continuava a farlo, cocciuto, caparbio, ostinato e risoluto, ma Dio, sempre indaffarato, non gli rispondeva, stava muto e dava l'aria d'ignorarlo.

Don Marino Carlo non si sciupava di coraggio; vagando per la chiesa del villaggio, non perdeva la speranza di ottenere udienza e tutte le sere, ciondolando, andava avanti un paio d'ore parlottando in direzione del Signore.

Era un rito trito e ritrito, una preghiera senza pretese, ma che si replicava da ben trent'anni e, mediamente, per trenta volte al mese.

Don Carlo Marino era il buon pastore degli ottocentoventi residenti di un freddo paesino piemontese e tutti gli mostravano calore, sebbene fosse lui d'origine pugliese.

Da una vita, Don Marino predicava tra quelle mura spoglie, consacrava marito e moglie, battezzava, e quando il destino chiamava a dura dipartita qualche membro parrocchiale, tristemente celebrava il funerale.

Da una vita Don Marino dava ascolto ai peccati di ogni cittadino, confessava e non faceva renitenza nel dare l'indulgenza. Predicava e celebrava messa, poi, puntuale come una promessa, la sera si appartava e ripeteva la sua monotona preghiera, più o meno sempre la stessa.

Don Carlo Marino parlava sempre con Dio, ma Dio non gli rispondeva, manco a stressarlo. Se Dio non replicava, c'è da scusarlo, ma Don Carlo Marino, puntuale come una cambiale e tenace come un tarlo, persistente, a volte petulante, continuava a disturbarlo tradendo una mediocre vocazione.

Ripeteva l'orazione, svelando così il perché della scelta presa in consorte: per garantirsi una morte alquanto duratura in cambio di una vita astinente e pura. Don Carlo Marino aveva paura e umanamente non si può dargli torto, paura di vivere per poi esser morto.

Dio che, per via di quel timore, riscuoteva gran successo, ma che in fondo amava il buonumore, quel Don Carlo, starlo ad ascoltare tutte le sere dopo il tramonto, per Lui che aveva altro da fare, era un vero tormento.

- Ti prego, o Padreterno, dammi un segno che riveli la mia sorte dopo la morte, io che fuggo dalla perversione, dimmi, dopo la pensione vivrò in eterno nel Regno dei Cieli? Io che sono quasi illibato, morigerato e puro, io che diserto ogni piacere della carne anche se ben vorrei, talvolta, approfittarne e che prego la Madonna, ma aspiro al ventre esperto di una donna, magari la Pina, quella donna libertina che quando alla mattina mi confessa la sua notte depravata e spudorata mette in mostra il seno quasi nudo, io sudo e vengo rosso. Io che ho represso i piaceri del sesso, io che sopisco il mio impulso naturale e lo lenisco con qualche veniale massaggio manuale, io che mai mi sono suddiviso, dopo la morte avrò in premio il mio posto accanto a Te nel Paradiso? -

La supplica risultava deprimente, ben poco divertente, travisata, fraudolenta, venale a dismisura e assai ripetitiva, bisognava pur trovare una cura.

Don Marino parlava con Dio, placava il suo io, temeva il trapasso, non faceva del sesso, sognava la Pina, e un lungo amplesso poi, la mattina chiedeva perdono, temeva l'Inferno, bramava l'eterno, rompeva i fagotti; poi, in una piovosa serata d'inverno, si svolsero i fatti...

...Erano circa le otto quando fece l'entrata una visione celeste, una bella signora castana tutta inzuppata, dal cappotto alla veste, fin in giù alla sottana.

La giovane donna entrò dal portale, fece un inchino, gli venne vicino e si poggiò stremata, tutta bagnata, ma molto sensuale. Don Carlo Marino, che stava parlando con Dio, per una volta, smise di farlo.

- Cosa vi spinge in chiesa a quest'ora di sera e dite, donde venite? - chiese Don Carlo alla bella straniera, squadrando la mora con occhio gagliardo, non proprio di un prete.

- Padre, alla buon'ora, ho avuto un guasto al mio furgoncino, cammino da un'ora, mi scusi il pretesto, ma è buio pesto e viene giù a cielo aperto. Cercavo un tetto al coperto, un luogo protetto, sono stremata..., senta il mio petto, fuori c'è un'aria intirizzita e sono tutta ghiacciata..., senta che dita, scroscia giù a catinelle..., senta la pelle, senta la coscia, è tutta bagnata fin giù alla sottana..., senta la lana -.

Sfiorando con mano gelata il prelato, la bella sperduta venuta per caso, portò l'altra al naso, smorzando un greve starnuto.

Don Carlo Marino non si fece pregare, portare assistenza era più che un dovere, la fece passare in uno stanzino laddove la donna si potesse asciugare, ma quando ella prese a spogliarsi senza pudore Don Carlo Marino non riuscì a ritirarsi, stregato davanti a quello splendore d'insenature e colline invitanti. Anziché fuggire, guardò e si fece avanti.

Mai egli adocchiò siffatta bellezza; di fronte alla nuda visuale fu facile preda di una disfatta carnale e quella ragazza, senz'altro amante del gioco gaudente, in meno di niente, a Don Carlo, ch'era ancora un bell'uomo, offrì in dono il suo grembo bruno.

A quel gesto invitante non avrebbe retto nessuno. Infine Don Carlo conobbe il piacere di una notte d'amore e il prete sedotto, dopo tre ore d'amore a dirotto, dopo plurimo amplesso, appagato nel sesso dal duraturo peccato, stremato e con il cuore in affanno, confuso nel senno e già innamorato, ansimando le chiese:
- Chi sei, chi ti manda o dolce fanciulla? Mai io trascorsi notte più bella -.
- Io sono la morte che ti porta via e chi mi manda è il nostro Padrone, Lui mi comanda, e la morte riscuote pigione in un solo momento, tutto quel tempo che ti è stato dato da quando sei nato. Non ti crucciare per la tua sorte o grazioso prelato, tu sei fortunato. Con Don Marino Egli è stato clemente, non Gli pareva carino troncarti la vita senza omaggiarti di quel peccato che malamente hai saputo negarti -.

L'uomo sentiva la fine imminente e da poco venuto (troppo sovente), si apprestava a partire, ma stava a sentire, ancora appagato, il suono sempre più fioco di quella sensuale, magnanima morte, chiedendosi con un sorriso se già sulla Terra non vi fu il Paradiso.

- O Don Marino, prima d'intrufolare l'anima tua nel mio furgoncino, Egli che è sempre assai informato e tutto sa, mi ha incaricato di dirti che non è necessario pagare alla vita un così caro salario per anelare un buon posticino nell'aldilà. Nostro Signore ti manda a dire che, di tanto in tanto, anche a Lui piace fare all'amore. Peccare è sprecare tutta una vita un lungo rimpianto, rimandare in eterno temendo l'Inferno e sottrarsi all'incanto di ciò che è l'amore; smarrirsi, non ascoltare la voce del cuore, mutare in peccato anche i desideri, multarsi, mangiare scondito e poi spirare pentito, senza avere vissuto. E adesso muori, muori contento, d'interrogare Dio non è più il momento, tra qualche istante avrai la risposta ad ogni richiesta senza più parlottare con il naso all'insù infine, non più.
...In confidenza, c'è una lagnanza; nostro Signore ne aveva proprio abbastanza di quel discorso casto e pudico, porta pazienza se te lo dico, ma è ben per questo che mi ha spedito ad accorciare il tuo già breve mandato. Al tuo corpo, precoce perito, spetta un cofano in noce, ben conservato in un tempio in granito, una foto dell'estinto, una data, un fiore finto. Mi ha fatto calare, ma non solo per quello, per farti anche capire quanto il mondo che lasci è da apprezzare per quanto è bello. E già che hai pagato l'andata senza ritorno, ti aggiorno su di una improvvisata; per te che la vita hai trasformata in un soggiorno incoerente, ti dovrai abituare ad un altro mortorio, ad un penitente bivacco in Purgatorio
-.

Infine la morte prese commiato da questo racconto viziato da qualche sonetto stiracchiato; s'infilò il corpetto, rimise il paltò e fece fagotto, raccolse i bagagli e se li portò.

Prima di scomparire verso l'incerto le sfuggì un celato bisbiglio che mi parve capire fosse un velato, esperto consiglio.

- Ognuno conti i suoi sbagli e poi, con l'inserita di qualche rima innocente, canti alla vita, prima di andarsene via da quell'esistenza, che nella sua essenza è melodia, è suadente, dolce, fuggente poesia -.
 
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