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Alla Certosa di Bologna

Disponibili sette sepolcri monumentali

Vi abbiamo dato notizia lo scorso mese delle procedure di riconcessione di nove sepolcri storici avviate alla Certosa di Bologna. Negli ultimi giorni è stata modificata la decorrenza del periodo di concessione che, da ora in avanti, verrà calcolato a partire dal primo utilizzo del sepolcro e non più dalla data di stipula del contratto. Il provvedimento vuole produrre una accelerazione del processo di recupero artistico e funzionale del complesso cimiteriale.
Attualmente sono disponibili i monumenti funerari di Teodoro Galitzin e di Barbara Fieschi e le tombe dipinte di Andrea Nicoli, di Giovan Giuseppe Fabbri, di Francesco Tartagni Martelli, di Giovan Domenico Atti e di Giovan Battista Cattaneo De Volta.
Fino ad adesso sono state riconcesse dieci tombe monumentali, otto delle quali già restaurate.
 
Il raffinato monumento di Teodoro Galitzin venne eseguito su disegno di Antonio Cipolla, il quale si avvalse di Antonio Rossetti per le sculture e di Giovanni Palombini per gli ornati. Il Rossetti incise la propria firma e la data, 1851, sotto il cuscino su cui si posa il capo di Teodoro. L’architetto napoletano progettò altri importanti lavori a Bologna, coinvolgendo artisti “forestieri” che portarono una diversa cultura, in parte alternativa al classicismo ancora declinato nella città felsinea in senso più o meno canoviano. La famiglia Galitzin, e in particolare Teodoro, furono circondati da artisti di primissimo piano: basterà ricordare il pittore Francesco Podesti (1800 – 1895) con un dipinto di grandi dimensioni, Il Tasso a Ferrara, al momento non rintracciabile, ma di cui sono arrivate a noi altre due versioni eseguite per i Torlonia di Roma e per il bresciano Paolo Tosio.
Per comprendere invece il dibattito culturale acceso da monumenti funebri come questo, riportiamo la descrizione fatta nel testo messo a stampa nel 1853 a Roma, nel quarto volume della serie La Civiltà Cattolica.
“... degli 8 ottobre il medesimo giornale riporta i begli encomii che la Gazzetta di Bologna dà agli artefici Antonio Cipolla architetto, Antonio Rossetti scultore, e Giuseppe Palombini intagliatore, in occasione dell’inaugurazione del monumento sepolcrale del Principe Teodoro Galitzin seguita nell’insigne Campo santo di Bologna. Questo lavoro, che noi pure ammirammo in Roma dove fu scolpito, induce nell’animo del riguardante un vero sentimento religioso. L’architetto Cipolla allo studio grandissimo da lui posto ne’ monumenti classici del Cinquecento ha accoppiato quell’intimo senso cristiano che è ora tanto ragionevolmente voluto ne’ monumenti religiosi. Su questo punto specialmente, da lui molto mirabilmente ottenuto, si versano le precipue lodi date a quel monumento da lui ideato. Mentre poi il concetto cristiano è così chiaro e così ben esposto, l’architetto seppe aggiungervi il vero buon gusto dello stile classico antico, il quale alcuni senza buona ragione vorrebbero abolito dai monumenti cristiani chiamandolo per dispregio stile pagano. Il monumento ideato da Cipolla può far buona fede che l’eleganza greca non contraddice per nulla all’arte cristiana”.
Dei monumenti funerari di Andrea Nicoli e di Giovan Giuseppe Fabbri riportiamo due stralci delle descrizioni incluse nella “Collezione dei Monumenti Sepolcrali del Cimitero di Bologna”, edito da Giovanni Zecchi tra il 1825 e il 1827.
 
Monumento di Andrea Eligio Nicoli avvocato, professore nell’Università, giureconsulto rinomatissimo, e letterato distinto, uomo di eccellenti virtù, che ebbe 64 anni di vita, e morì li 26 novembre del 1807. Il presente monumento fecelo fare Pietro Nicoli fratello del defunto per opera dell’ornatista Lodovico Lambertini, e del figurista Giuseppe Ramenghi”.
“Monumento di Gian Giuseppe Fabri, filosofo, e medico anatomico, Professore nell’Università, Accademico dell’Instituto, del Collegio Elettorale dei Dotti, della Commissione di Sanità, e del Cimitero; personaggio chiarissimo per virtù e sapere, vissuto 53 anni, e morto li 22 marzo 1810. La di lui moglie e la figliuola Costanza gli fecero fare questo monumento per mano dell’ornatista Giuseppe Querzola, e del figurista Vincenzo Armani”.
 
Barbara Fieschi Doria, vedova dell’ultimo doge di Genova, Giacomo Brignole Sale, deposto nel 1797 in seguito alla conquista napoleonica, si era ritirata a Bologna dove morì nel 1820. Il suo esecutore testamentario, Francesco Ranuzzi, acquistò un arco nel Chiostro della Cappella e presentò all’Accademia un disegno dello storico dell’arte Antonio Bolognini Amorini. Il monumento ha la forma di una edicola dalle sobrie linee classiche, coronata da un timpano triangolare con al centro lo stemma. I motivi decorativi della cornice e delle lesene sono tipici del gusto di Pietro Trefogli con una più decisa virata in ambito sepolcrale nel fregio a mazzi di capsule di papaveri, allusivi all’oblio e al sonno della morte. La nicchia centrale, rivestita di scagliola a finto marmo, ospita il busto della defunta, opera di Giacomo De Maria, su un basamento modanato che richiama quello del monumento al duca di Curlandia all’Accademia di Belle Arti. Il busto ritrae la marchesa Doria in modo realistico, ma in abbigliamento all’antica, con il capo velato e con una veste dal panneggio classico.
 
Il nobile forlivese Francesco Tartagni Marvelli muore a Bologna nel 1814 e il fratello, l’abate Giovanni Battista, acquista per la sua sepoltura un arco nel Chiostro III. Nel 1815 viene eseguito da Pietro Fancelli, coadiuvato dal fratello Giuseppe, un monumento dipinto, approvato precedentemente dall’Accademia. Il monumento è dominato da una scala centrale che immette su un portale oltre il quale si vede un sarcofago su zampe leonine. L’iscrizione latina entro una lapide sormonta l’ingresso del mausoleo. Sull’attico siedono due putti con torce rovesciate che reggono al centro uno stemma coronato e diverse armi. Ai lati dell’ingresso siedono due piangenti avvolte in ampi panneggi, una delle quali tiene in mano un rosario. L’invenzione è perfettamente allineata con le direttive dell’Accademia di Belle Arti di Bologna che richiedeva colori sobri e un effetto simile alla scultura per i monumenti dipinti. Fancelli ha eliminato lo sfondato tipico dei monumenti più antichi, ritenuto inadatto alla destinazione cimiteriale perché troppo scenografico e quindi non sufficientemente decoroso.
Il monumento funerario di Gian Domenico Atti fu descritto nella “Collezione scelta dei Monumenti Sepolcrali del Comune Cimitero di Bologna”, edita da Natale Salvardi nel 1825 (“... Gli eredi ch’ei beneficò eressero alla sua memoria il monumento dipinto da Giuseppe Muzzarelli, ed in cui fece le figure Vincenzo Rasori, entrambi egregi dipintori”) e nel già citato volume di Giovanni Zecchi (“Monumento di Gian Domenico Atti dottore in legge uomo ingegnosissimo, e gran fautore delle industrie, degli artieri ed agricoltori: vissuto 39 anni, morì l’ultimo di aprile del 1813. Il monumento gli fu eretto dalli di lui eredi per opera di Giuseppe Muzzarelli, pittore di ornato, e di Vincenzo Rasori, pittore di figure”).
 
Dallo stesso volume è tratta la descrizione del monumento funerario di Giovan Battista Cattaneo De Volta. “Monumento di Gian Battista Cattaneo de Volta Genovese. Ebbe lume d’illustre casata, e fu giovane d’indole soavissima, d’intieri costumi, e d’ingegno presto ed atto ad ogni bell’arte: fino dalla tenera età mostrò non curanza del mondo, e magnanimo dispregio di sé medesimo: sincero amatore della virtù e della pietà. Penò in malattia per più di tre mesi, e morì li 24 luglio del 1813, in età di soli 25 anni, mesi 5 e 26 giorni. Fu unica prole di Nicola Cattaneo de Volta e di Anna Maria Brignole, che dolentissimi gli posero il presente monumento, lavoro di Francesco Stagni pittore in ornato socio onorario dell’Accademia di Belle Arti in Bologna”. Nell’epigrafe alcuni temi tipici della cultura romantica vengono espressi in latino, la lingua più usata dal neoclassicismo. È importante sottolineare che una delle esigenze dei romantici (che riprendono dall’illuminismo) è l’educazione del popolo; lo stile, quindi, viene adeguato e la lingua si avvicina a quella parlata e popolare; il ricorso alla lingua latina non è proprio di epoca romantica, ma il testo ha in sé quei temi che poi saranno tanto cari al romanticismo. L’epigrafe tradotta recita: “Nicola Maria Cattaneo de Volta Pinelli e Anna Maria Ottavia Brignole, genitori addoloratissimi a Giambattista Giacomo Maria Sebastiano Cataneo De Volta Pinelli, genovese, di stirpe nobile, giovane di celere ingegno, incline alle massime arti, di indole dolcissima e di costumi castissimi, che detestò i vizi sin dall’infanzia, sprezzante le cose mondane e le sue necessità terrene, amò appassionatamente tutte le virtù e la pietà in primo luogo e le coltivò fino alla morte. Visse 26 anni, 5 mesi, 26 giorni, dopo più di tre mesi afflitto da una malattia varia e distruttiva, anelando unicamente alla beatitudine celeste, volò al cielo con animo equo e fermo. Fu figlio unico, per il quale i genitori non si addolorarono mai se non quando morì il 24 luglio 1813”.
 
Roberto Valli

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