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DIAGNOSI DEL DOTTOR QUARANTA

Conoscevo il dottor Quaranta da vent'anni e da dieci, ormai, ci si dava del tu.

Il dottor Quaranta aveva appena superato i cinquanta, che faceva cento sommato alla sua taglia, cinquanta anch'essa, un quarto della sua parcella.

Un metro e ottanta, Quaranta era un bell'uomo, brillante, vigoroso, spendaccione e benestante, un donnaiolo pieno di vizi e con qualche nobile virtù.


La migliore delle sue qualità consisteva nel fatto che era un buon medico, e questo non è poca cosa in quel mestiere che richiede stomaco, occhio e responsabilità.

Sapeva il fatto suo e più di una volta aveva curato con maestria i malanni che, nello scorrere degli anni, avevano afflitto il mio fisico, asciutto e ben meno energico del suo.

Il dottor Quaranta fumava come un turco e non tossiva mai, faceva tardi al night, ma alla mattina era sempre fresco come una rosa; aveva un fascino irresistibile, faceva strage di cuori, ma pareva riuscisse a tenere a bada tutte le sue conquiste.

Sotto sotto, invidiavo il dottor Quaranta ed il suo fisico eccezionale, lo invidiavo un po', ma senza malizia, mi era simpatico, ma un poco lo invidiavo, nonostante avesse qualche anno più di me, mediocre ragioniere.

Il dottor Quaranta era certamente una persona gradevole, ma quel pomeriggio non era certo riuscito a rallegrarmi l'esistenza con le sue argute battute spinte, anzi, me l'aveva appesa a un filo, rifilandomi una mazzata a freddo che non avrei potuto assimilare neppure ingurgitando tutti i campioni omaggio di digestivi che teneva in bacheca.

- Brutto affare caro amico mio -, mi aveva detto con fare sornione dopo aver analizzato con cura le mie lastre; me lo aveva detto scotendo la testa e poi mi aveva ripetuto:
-Cazzarola, brutta situazione davvero! -, indugiando sul verdetto ed accrescendo la mia preoccupazione; poi, dopo una pausa interminabile, poggiandomi una mano sulla spalla, aveva proseguito nella nefasta rivelazione.
- Caro amico, smettere di fumare è la prima cosa da farsi, lasciar perdere le donne è la seconda, niente alcolici e caffè è da sommare con la prima e la seconda. Tentare di dare una disperata ripulita a queste arterie in sfacelo per tentare di campare qualche mesetto in più è la terza, mi dispiace...-.

Il verdetto era stato lapidario, il mio cuore era agli sgoccioli e, a sentire lui e a Dio piacendo, nonostante una bella serie di interventini chirurgici, il tempo che mi rimaneva da vivere era destinato ad abbassare la media nazionale.

Il dottor Quaranta sapeva come modulare le parole, ma la sinfonia suonava a requiem e, mentre lui continuava a spiegarmi i come dei perché, la mia mente aveva iniziato a viaggiare da sola, presentandomi il conto della mia vita e prospettandomi il prematuro futuro avvento della mia prossima morte.

Il dottor Quaranta parlava, ma non riuscivo a captare nulla.
Come in un film accelerato, dentro al cervello scorrevano le immagini di me, giovane e affaticato, a tentare di tenere il passo degli amici pestando sui pedali della bicicletta; riassaporavo il gusto molle del mio primo, tremante bacio d'amore rubato alla fine del secondo tempo di un western proiettato in un cinema di periferia, rivedevo gli anni della scuola, l'università, il volto di mia moglie Maria.

Riavvolgevo in pochi istanti tutta la mia esistenza e poi vedevo lei, Cristina, la mia giovane amante, la prima, vera trasgressione di tutta la mia vita.

Per campare un giorno in più avrei dovuto rinunciare alle sue languide e fugaci carezze, alle mie dieci sigarette, al cicchetto dopo il caffè ed al caffè stesso; ahimè il caffè, il più irrinunciabile dei vizi miei, anche lui, nero e fumante, bandito.

Il dottor Quaranta, che di trasgressioni era un impunito collezionista, raccontava cause ed effetti, mentre io immaginavo l'istante del trapasso, partecipavo al mio modesto, ma pur costoso funerale, scorrevo i volti tristi di alcuni e quelli ipocriti di altri.

Dopo i primi attimi di raggelante terrore ero stato assorbito da uno sconfortato senso di impotenza, da un amaro fatalismo, e lo smarrimento aveva scalzato la paura.

Immaginavo la mia morte e non riuscivo a crederci, anche se la sentivo già serpeggiare dentro di me, tra le mie viscere, annunciata da quei mancamenti che ultimamente mi avevano colpito sempre più spesso e che mi avevano indotto a recarmi lì, a chiedere consiglio al dottor Quaranta.

Ero già arrivato oltre il momento della sepoltura e già pensavo all'aldilà, al Paradiso e all'Inferno, al sonno eterno. Stavo facendo il computo dei miei peccati e, senza volerlo, inconsciamente invocavo il perdono.

Frattanto, il dottor Quaranta, pirotecnico come sempre, riusciva a sbrogliare cinquanta cose nello stesso istante.
Scriveva ricette mentre parlava con me, poi si rivolgeva alla segretaria pregandola di fare attendere i clienti e nel frattempo telefonava.

In un attimo di lucidità, cercando di fuggire dai miei nefasti pensieri, intercettai il dialogo.
- Quante volte ti ho detto di non telefonare in studio, lo sai che sto lavorando, smettila di fare i capricci... non dirmi così, dai… sei sempre la solita troietta...-.

In quel momento la mia invidia si inoltrò tra i canoni dell'ingiustizia, assestando un ulteriore colpo al mio morale.

Il dottor Quaranta, sfacciato e inopportuno, se la stava menando con una delle sue pulzelle, aveva chiesto un caffè e giocherellava con il pacchetto delle sigarette proprio mentre io stavo dicendo addio a tutto quel ben di Dio.

A quel punto, posata la cornetta, divagando dall'infelice discorso professionale che mi aveva stravolto, turbato dalla telefonata si rivolse a me con fare complice, cercando sollievo per il suo umore innervosito.
- Quella puttanella, più gliele dai vinte e più ne vorrebbe. Non fosse che a letto è una pantera, a quest'ora le avrei già regalato un barboncino pregandola di andare a passeggiare altrove -.

Senza smettere di pensare ai casi suoi, il dottor Quaranta aveva cercato autocontrollo accendendosi una di quelle dannatissime sigarette francesi, quelle con la carta di mais che spaccano i polmoni ai comuni mortali, l'aveva accesa senza ritegno sbuffandomi in faccia quel fumo che non avrei dovuto assaporare mai più, poi si era alzato dalla sua snodatissima poltrona girevole e si era avvicinato, appoggiandomi una mano sulla spalla e tornando sul discorso primitivo dicendomi:
- Caro amico mio, sono davvero desolato per te, ma le possibilità di preservare la pellaccia sono veramente appese a un filo - poi aveva tirato un'altra nota lunga e profonda ed era successo il resto.

Il dottor Quaranta aveva stretto forte la mia spalla, fortissimo, poi mi aveva guardato fisso spalancando gli occhi, gli era caduta la sigaretta sui miei pantaloni, era sbiancato come un'aspirina e, emettendo un flebile gemito, mi era scivolato addosso.

Il dottor Quaranta era morto sul colpo, stecchito da un infarto fulminante, steso dalle sue pulzelle di vent'anni, cotto dalle sue sigarette spaccapolmoni e beffato dalla sua inconsapevole certezza di essere un Essere eterno ordinato da Dio nel diagnosticare il momento della dipartita altrui. Compresa la mia.

Non aveva avuto il tempo di prendersi una strizza, né di redimersi, né di rivivere la propria vita, non era stato obbligato a cozzare col pensiero della brevità della vita e l'agguato della morte, metabolizzarlo ed accettarlo, così come ero stato costretto a fare io nell'arco di pochi, dannatissimi minuti.

Fortunato anche nella morte, era stecchito in un amen e basta.

Andai al funerale del dottor Quaranta, osservai i volti della gente: qualche giovane fanciulla (fortunato anche steso nella Mercedes nera) piangeva davvero, qualcun'altra, che invece aveva pagato le spese, calzava volti di circostanza.

Andai al funerale del dottor Quaranta preparandomi al mio. Qualche giorno appresso, tornai allo studio del dottor Quaranta e feci conoscenza con il suo sostituto, un giovane medico di belle speranze.

Dopo aver controllato le mie analisi e le lastre mi disse:
- La scienza fa progressi e la farmacologia anche, forse non è poi così grave, signor Perotto.

Tutto questo accadeva cinque anni fa e ripensando a tutti i calcoli che feci allora, oggi, a cinque anni di distanza, non posso far altro che sorridere, soffermandomi sulla casualità.

Cinque Perotto fa Quaranta!
 
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