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Il Lied von der Erde di Gustav Mahler

Un congedo dalla vita

Il 1907 è un anno a dir poco assai difficile per Gustav Mahler (1860 - 1911): lascia dopo dieci anni la direzione dell'opera di Vienna, vittima tra l'altro di una violenta campagna di stampa; si incrina seriamente il rapporto con la consorte; gli viene diagnosticato il grave difetto cardiaco che segnerà i suoi ultimi anni di vita; muore la figlia primogenita. È vero che, anche nel suo caso, è bene non voler collegare troppo strettamente l'opera di un artista con le vicende della sua vita; ma è difficile non tener conto che proprio in questo periodo cade sotto i suoi occhi una raccolta di antiche liriche cinesi, tradotte e rielaborate in tedesco, dalle quali nascerà uno dei suoi ultimi e massimi capolavori, il Lied von der Erde (Canto della terra): una suite organica di sei brani per voce solista e grande orchestra, di natura sinfonica per dimensioni e impegno compositivo, un'opera pervasa da un ineludibile sentimento di morte.
Così, fin dal primo brano, il Brindisi dei mali della terra, una spasmodica esaltazione della vitalità, consapevole della sua fugacità ("ma tu uomo quanto puoi vivere ancora? / nemmeno cent'anni ti puoi divertire / di tutte le vanità putrescenti di questa terra!"), culmina nell'urlo lancinante di una "selvaggia figura spettrale", una scimmia, china sui sepolcri illuminati dalla luna; e placa alla fine di ogni strofa il suo canto parossistico (per voce di tenore) nell'ineluttabile calma di un motto tre volte ripetuto: "oscura è la vita, oscura è la morte".
Ma in particolare va segnalato l'ultimo brano, Der Abschied (Il congedo), sicuramente uno dei vertici assoluti dell'intera produzione mahleriana, la cui importanza nell'ambito dell'opera stessa è sancita anche dalla sua estensione, pari a quella di tutti i brani precedenti messi insieme. Un tramonto, immagini della natura sul cui sfondo, in un clima rarefatto e sospeso, si disegna tenue un incontro fra il poeta e un amico, un viandante: "amico mio, in questo mondo / non mi ha sorriso la fortuna" - dice con voce velata, volto "a cercare pace", a proseguire il suo viaggio verso un luogo da cui non si allontanerà mai più. "Silenzioso il mio cuore aspetta la sua ora", mentre dappertutto e per sempre "la dolce terra rifiorisce" e "s'illuminano d'azzurro gli orizzonti". "Sempre... sempre...", ripete infinitamente lento un canto che si spegne insensibilmente ad esprimere appunto l'idea del congedo, del distacco dal mondo del viandante che ognuno di noi è, mentre la vita prosegue; con una musica che, proprio perché anch'essa rarefatta ai limiti del silenzio, raggiunge una intensità espressiva davvero inaudita. E, come scrisse benissimo il musicologo E. Napolitano, "l'ultima parola non è di chi senta la morte come uno scacco, ma di chi, ammaestrato dall'esperienza del dolore, ha accresciuto la propria capacità di riconoscerne la presenza: con indicibile rimpianto, essa resta sospesa all'infinito, in una assenza di speranza senza disperazione".
 
Franco Bergamasco

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