- n. 4 - Aprile 2007
- Letteratura
“Amore e Morte” di Giacomo Leopardi
Chiudi alla luce omai questi occhi tristi
“
Muor giovane colui ch'al cielo è caro”: un proverbio, subito pensiamo noi, ma conviene anche ricordare che è anzitutto la traduzione di un verso dell'antico lirico greco
Menandro. Come tale, insieme al testo originale, lo cita
Leopardi in epigrafe ad uno dei suoi
Canti, che reca il titolo di “
Amore e morte”. La poesia, composta tra il 1832 e il 1833, è una delle cinque ispirategli dalla sfortunata ma intensissima passione amorosa che visse per la nobildonna fiorentina
Fanny Targioni Tozzetti, trasfigurata poeticamente nel nome letterario di
Aspasia. Proprio a lei scrisse una volta: “
l'amore e la morte sono le sole cose belle che ha il mondo, e le sole solissime degne di essere desiderate”. Le poesie del cosiddetto “
ciclo di Aspasia” appunto, non fra le più note presso la maggior parte dei lettori (soprattutto in quanto tradizionalmente poco presenti nei programmi scolastici), rappresentano insieme ad altre una cospicua novità nel pensiero e nel linguaggio poetico di
Leopardi. Se l'amore era visto in precedenza più che altro come una illusione giovanile, grazie a cui temporaneamente distogliamo il pensiero dalla negatività dell'esistenza e del mondo, la concreta, ardente passione per
Fanny, e il suo rifiuto, gli ispirano una nuova concezione del sentimento amoroso: esso è un sentimento di una tale meravigliosa, ma anche terribile forza, tanta è la felicità che ci fa vivere o sperare, che esso non genera illusioni, anzi con la sua forza le spazza via e ci pone inevitabilmente di fronte alla verità, cioè ai limiti, alla desolazione, al dolore che per natura è costitutivo dell'esistenza umana.
“
Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morteingenerò la sorte.Cose quaggiù sì bellealtre il mondo non ha, non han le stelle.Nasce dall'uno il bene,nasce il piacer maggioreche per lo mar dell'essere si trova;l'altra ogni gran dolore,ogni gran male annulla”.
Per questo
Amore e
Morte sono fratelli: chi ha concepito grazie a lui quell'incredibile, impossibile desiderio di felicità (una condizione per
Leopardi strutturalmente irrealizzabile nell'esistenza terrena, l'unica per lui che abbiamo) non teme più lei, anzi può anche giungere ad invocarla, quasi ad affrettare un destino che la mano omicida della Natura compirà comunque; il tutto rifiutando con sdegno quelle che per il poeta sono le false consolazioni e speranze offerte dalla religione.
Ecco dunque la morte - sempre ingiustamente calunniata, evocata qui invece nelle vesti di una “
Bellissima fanciulla, / dolce a veder, non quale / la si dipinge la codarda gente” - profilarsi come liberazione, unico possibile esito di una tensione tragica insolubile. Ma leggiamo qualche verso dell'ultima strofa, e la bellissima chiusa:
“
E tu, cui già dal cominciar degli annisempre onorata invoco,bella Morte, pietosatu sola al mondo dei terreni affanni,se celebrata maifosti da me, s'al tuo divino statol'onte del volgo ingratoricompensar tentai,non tardar più, t'inchinaa disusati preghi,chiudi alla luce omaiquesti occhi tristi, o dell'età reina.Me certo troverai,[...] erta la fronte, armato,e renitente al fato, [...]ogni conforto stoltogittar da me; null'altro in alcun temposperar, se non te sola;solo aspettar serenoquel dì ch'io pieghi addormentato il voltonel tuo virgineo seno”.
Franco Bergamasco