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rime, per ricordare doti e virtù

Usanza conosciuta fin dalla antichità, il canto funebre viene affidato spesso a lamentatrici di professione, pagate per piangere, urlare e persino strapparsi i capelli. Tra grida di dolore e strofe che celebrano le qualità del defunto, le cosiddette "prefiche" vegliano il defunto e lo accompagnano lungo il corteo funebre. E, seppure ostacolate dalle autorità ecclesiastiche, continuano nei secoli a prestare la loro voce.
Fino in tempi recenti.


Tra lacrime disperate ricordano le virtù del morto. Con forti grida e struggenti cantilene, esprimono il dolore del distacco, arrivando a strapparsi i capelli e persino a graffiarsi il viso. Un compito che eseguono il più delle volte a pagamento. Sono le lamentatrici di mestiere, le cosiddette "prefiche": donne che vegliano il defunto con canti funebri e filastrocche che richiamano episodi della sua vita, chiamate dai parenti che vogliono non solo onorare la memoria del loro congiunto, ma anche dimostrare a tutta la comunità, con questi toni strazianti, quanto sia drammatica la sua scomparsa.
Altissime grida lungo il corteo. Una usanza conosciuta fin dai tempi più remoti. Già nell'antica Grecia si ricorre, per i funerali, alle donne specializzate nel piangere, che esaltano, a chiome sciolte, i meriti del defunto: un rituale che svolgono con voce cupa, spesso tirandosi via dalla capigliatura vistose ciocche. Nella Roma classica, le lamentatrici hanno una parte importante nel corteo funebre, dove seguono i portatori di fiaccole levando altissime grida di dolore alternate alle lodi del defunto. Risale proprio a questa civiltà il loro nome: infatti il termine "prefica" deriva dal latino "praeficere", ovvero stare a capo, guidare. In questo caso, guidare il pianto: tanto che lo storico latino Festo, le definisce "donne chiamate a lamentare il morto che danno alle altre il ritmo del pianto". Lungo il corteo funebre, seguite da mimi e danzatori, le prefiche accompagnano la salma percuotendosi il petto, strappandosi i capelli e lanciando urla sconvolgenti. Una funzione che svolgono dietro compenso dei familiari del defunto, che intendono così accentuare le sofferenze del distacco.
Strofe a memoria e improvvisazione. Con rime che si tramandano oralmente di generazione in generazione, le prefiche esprimono il rimpianto del defunto per ciò che lascia sulla terra e ne celebrano i meriti. Di solito si stringono intorno alla salma e recitano con voce triste e sommessa, quindi fanno seguire lunghi lamenti e singhiozzi, poi riprendono a recitare: alternano però le strofe a memoria con altre inventate sul momento, a seconda della personalità e delle qualità del morto. E tanto più importante è il defunto, tanto più sono numerose. Combattuto per secoli, il loro intervento durante veglie e funerali si tramanda comunque.
Già nel 1313 il vescovo di Treviso proibisce il pianto ad alta voce; verso il Cinquecento alcuni scrittori si scagliano contro le lamentatrici che "piangan del mal che non le tocca", mentre lo scrittore senese Pietro Nelli dice che il "pianto oggi si vende a contanti". Nel sinodo del 1588, il vescovo di Nicotera vieta il pianto lugubre che le donne fanno sul cadavere, mentre il vescovo di Adria nel 1601 condanna le donne scapigliate ed urlanti e quello di Potenza, nel 1711, reprime lo strapparsi i capelli e il graffiarsi il volto durante le veglie funebri. Ma in tutta Italia il ricorso alle prefiche rimane vivo per molto tempo ancora.
Vestiti neri e calze bianche. In Piemonte, soprattutto in alcune zone della provincia di Cuneo e nel Canavese, si convocano per i funerali le cosiddette "piagnone" fino all'inizio del Novecento, mentre in Lombardia è dimostrata la presenza del lamento fino tra le due guerre mondiali: l'intervento delle "piansune" è documentato in modo particolare nelle province di Mantova e Cremona. Nelle Marche, almeno fino alla metà del XX secolo, nelle comunità intorno a Macerata, è presente l'uso di convocare, in occasione della morte dei vecchi e delle persone sposate, cento donne vestite di nero che piangono incessantemente durante il corteo funebre; ancora negli anni Trenta, in Molise, le "repute" eseguono la lamentazione agitando sul cadavere un fazzoletto. Mentre in Friuli le prefiche portano calze bianche e un drappo dello stesso colore, in Puglia, ancora per tutto l'Ottocento, in diversi paesi della provincia di Lecce, sono presenti le "repute", vestite di scuro e coperte in viso con un velo nero, che si recano alla dimora del defunto per compiangerlo e decantarne le doti. Se in Toscana le "lamentatrici" alternano alle cantilene cibi e bevande offerte dai familiari del defunto, in Calabria le prefiche accompagnano la veglia funebre con gesti particolari: muovono il capo, si spettinano, sollevano le braccia al cielo. Contrastate dalla Chiesa locale soprattutto nel Settecento, le lamentatrici di professione, sia in casa che in chiesa, vengono segnalate in provincia di Cosenza, dove sono soprannominate "chiagnitare" e i loro canti chiamati "dittagi", quasi fino alla fine dell'Ottocento; in alcuni centri della provincia di Catanzaro, dove l'usanza è registrata ancora nei primi decenni del Novecento, finita la recita delle virtù del defunto, le donne agitano in aria il fazzoletto e poi lo ripongono nella cintura del vestito. Nelle zone intorno a Bagnara, appena una persona muore, i parenti, piangendo in maniera disperata, corrono subito a chiamare le donne per la lamentazione, che giungono accorrono al letto del defunto, si sciolgono i capelli e iniziano ad urlare battendosi il petto. A Locri, dopo che il morto è stato deposto sul catafalco arricchito dalla coperta più bella della famiglia, dal lenzuolo più prezioso e da un cuscino fatto di foglie di alloro, le donne iniziano la veglia: si dispongono a cerchio attorno al defunto e con i capelli sciolti iniziano le cantilene, alternando lacrime e lodi del defunto. Le prefiche di Pellegrina, invece, oltre ad urlare frasi in onore del morto, si battono la testa con i pugni, mentre quelle di Ceramida, per manifestare il grande dolore, si graffiano il viso.
Strepiti in corteo e banchetti finali. In alcune tradizioni, le lamentatrici seguono il defunto fino al momento della sepoltura. In Campania, nel Napoletano, prendono parte al corteo funebre, accompagnando con forti strepiti il cadavere fino in chiesa. Durante la cerimonia, ascoltano in silenzio le parole del sacerdote: terminato il rito funebre, riprendono con ancora più forza il loro pianto, che prosegue ininterrotto fino al momento del seppellimento. Al termine, vengono invitate al banchetto dai parenti del defunto. Seppure repressa in più occasioni, l'usanza del canto delle prefiche non viene meno neppure in Sicilia. Già Federico II d'Aragona tenta di reprimere l'attività delle cosiddette "reputatrices" con una ordinanza del 1309, ma inutilmente: infatti è segnalata la loro partecipazione imponente persino ai suoi funerali. Anche il divieto imposto a metà del 1400 dal vescovo di Corleone, non dà alcun risultato: le lamentatrici continuano a prestarsi nel corso dei secoli, emettendo voci strazianti davanti al cadavere. Un pianto dolorosissimo, che prosegue fino all'arrivo del sacerdote, che entra nella casa del defunto per benedirlo ed accompagnarlo al luogo della sepoltura. Solo a questo punto, le donne non si lamentano più. Facendo calare il silenzio.
In ginocchio nella capanna. Conosciuta anche presso altre culture, la lamentazione esprime sempre in maniera drammatica l'angoscia del distacco. Presso alcune tribù della Tanzania, le donne iniziano la lamentazione al momento della morte e la continuano ad intervalli fino alla sepoltura, che avviene tre, quattro giorni dopo: chiamate "padrone della morte", passano la maggior parte del loro tempo all'interno della capanna del defunto. Fino al momento della sepoltura, abbracciano il cadavere, eseguendo una lamentazione che diventa sempre più forte. Tra alcuni gruppi presenti in Borneo, subito dopo la notizia della morte di una persona, le donne, vestiti gli abiti del lutto, si inginocchiano ed iniziano un drammatico canto funebre, eseguito tra profondi singhiozzi. E, sciogliendosi i capelli, si coprono il viso. Per non turbare con le lacrime il defunto, nel suo nuovo stato di quiete.
 
Gianna Boetti

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