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E LE STELLE STANNO A GUARDARE

Tremila miliardi delle vecchie lire: più o meno intorno a questa cifra si aggira la massa di denaro che annualmente viene movimentata nel comparto funerario italiano per la parte strettamente connessa allo svolgimento delle esequie, cioè la cessione di beni primari e prestazioni accessorie, quindi con esclusione degli oneri dovuti agli enti locali, delle forniture floreali e di quelle inerenti al settore lapideo. Comunque un fiume cospicuo di denaro gestito direttamente da tutti quegli operatori che, a torto o a ragione, si fregiano della qualifica di impresari di onoranze funebri. Una ricchezza colossale considerata nel suo insieme che, spersa negli innumerevoli rivoli individualistici di cui è composta la nostra eterogenea e frammentatissima categoria, si polverizza fino a diventare evanescente.

Un idealista velleitario, parecchi decenni or sono, elaborò un piano utopistico di cui sicuramente i "vecchi" come me hanno sentito parlare.

Creare una sorta di consorzio nazionale delle imprese funebri al quale facesse capo univocamente l'immenso patrimonio prodotto dalle affiliate e ne evitasse la

dispersione, facendolo affluire in una unica "cassa" quale poteva essere una specie di "tesoreria" o, meglio ancora, una "banca" centrale, della quale le imprese fossero, nel medesimo tempo, clienti ed azionisti. Acqua passata!!! Eh sì, perché si parla di 50 anni fa o giù di lì, quando, pur essendo i valori assoluti molto inferiori, ma identiche le proporzioni, nel nostro settore operavano ancora molte figure di vecchio stampo, carismatiche, che definire solo "galantuomini" è riduttivo. Veri "signori" di animo, irripetibili esempi di rettitudine deontologica, che giammai avrebbero barattato la dignità con la commistione. Ne ricordo personalmente alcuni che voglio citare con nome e cognome come Alessandro Tabossi di Ancona, Carlo Parenti di Vercelli e - mi sia consentito il campanilistico omaggio - don Luigi Formica di Foggia. Dove il desueto "don" non era usato in forma servile, ma era l'espressione autentica del grande rispetto dovuto ai retti e probi. Limitandomi a sceglierne solo fra gli scomparsi, per non fare torto a nessuno degli eventuali superstiti tuttora viventi ed operanti. Ma il riferimento è pur sempre datato all'epoca in cui in Italia operavano quelle circa 4.000 imprese che si possono definire "storiche" e che sovente, pur essendo carenti di mezzi e di attrezzature, tuttavia riuscivano a sopperire empiricamente ma egregiamente alle esigenza della collettività. Con il boom economico degli anni '60 e l'avvento dell'era consumistica si verificò la prima grande ondata della polverizzazione che si protrasse nei due decenni successivi con gli effetti deleteri che tutti conosciamo. A seguire un periodo di stasi rintracciabile a cavallo degli inizi degli anni '90, ma a fine secolo, con il famigerato Decreto Bersani, il dilagare divenne diluvio. Tanti, tantissimi, che per vari motivi ostativi collegati alla iscrizione al REC (conseguibile previo il superamento degli esami previsti della pregressa legge 426) non erano riusciti ad entrare nel settore, al momento in cui le porte sono state spalancate (con l'abolizione degli esami, consentendo l'indiscriminata apertura di una valanga di nuovi esercizi con una semplicissima ed innocua comunicazione di inizio di attività al Sindaco) non hanno esitato e si sono improvvisati impresari funebri. Ex dipendenti, squallidi avventurieri, in qualche caso gentaglia e feccia della società reduce dalle patrie galere, e poi fioristi e marmisti, ma anche sacrestani ed operatori di ambulanze, nonché custodi di cimiteri (benché dipendenti pubblici, attraverso prestanomi compiacenti) hanno allargato i loro orizzonti ed i loro "interessi" estendendone gli effetti al settore funerario.

Quante sono, oggi, le "imprese" (o presunte tali) operanti in Italia? Nessuno lo sa! C'è chi si ostina a contarne 4 o 5.000 al massimo. Ma è un calcolo da preistoria! La realtà è ben diversa e se è vero che tutto il mondo è paese e che i parametri riscontrabili nella mia zona sono validi anche sull'intero territorio nazionale, non è difficile affermare che gli operatori del settore ammontano ad una ragguardevole cifra oscillante fra le 15 e le 18.000 unità. Nella mia realtà provinciale, infatti, operano oltre 160 aziende in 64 comuni, con una incidenza di 2,5 per comune. Se tanto mi dà tanto, essendo i Comuni italiani poco più di 8.000, i titolari d'impresa dovrebbero essere pressappoco 20.000 che, per difetto, possiamo enumerare, come già detto, intorno ai 18.000, sicuramente non meno di 15.000. Una armata Brancaleone che annaspa alla ricerca di una identità mai conosciuta e, quel che è peggio, mai definita e perseguita. Siamo degli ibridi indefinibili: in parte commercianti con talune caratteristiche artigianali, molta connotazione intermediaristica, nonché faccendieri, cerimonieri ed organizzatori di una molteplicità di prestazioni che concorrono alla costituzione di un servizio che, come ho detto in altre occasioni, è unico, oltre che essere permeato di grande delicatezza e forte incidenza umanitaria. Siamo un cocktail di risorse, di funzioni, di capacità interpretative e rappresentative. In questo esercito non proprio omogeneo vi sono laureati e diplomati, medio acculturati, ma anche analfabeti autentici e, quel che è peggio, vi sono beceri, venali, presuntuosi, accaparratori, meschini malversatori, megalomani, egocentrici, arrivisti, disposti a tutto, anche a passare sul cadavere della propria madre, per inseguire la "preda" del momento: il servizio funebre. Difettano, e tanto, gli "aristocratici", coloro i quali non si muovono dal loro negozio o ufficio se non a seguito della chiamata diretta da parte dei dolenti, coloro i quali disdegnano di correre dietro le ambulanze, coloro i quali non fanno "affari" loschi con intermediari di varia estrazione (infermieri, portantini, barellieri, portinai e quant'altro), coloro i quali non usano presentarsi nelle abitazioni approfittando della concitazione e del turbamento provocato dal decesso di un congiunto, coloro i quali rifiutano aprioristicamente di scendere a compromessi pur di assicurarsi il congruo numero di servizi che soddisfi le proprie bramosie.

Ma questo aspetto che definirei di "non professionalità" non impensierisce nessuno e non preoccupa le organizzazioni rappresentative della categoria impegnate a rincorrere traguardi diversi: c'è chi insegue la parvenza della cosiddetta "figura giuridica", raggiungibile (a suo modo di vedere) con il possesso di un qualsiasi catorcio su quattro ruote che possa definirsi carro funebre, a cui andrebbe aggiunta la disponibilità fissa di due o più necrofori legalmente inquadrati, c'è chi sembra essere animato da una fretta maledetta nel vedere promulgare il nuovo Regolamento di Polizia Mortuaria nazionale, quale che sia, al quale dovrebbero seguire una ventina di fotocopie malriuscite di regolamenti regionali che, per soddisfare la voglia di visibilità (o di eccentricità?) delle regioni più "in", produrranno, ognuna per proprio conto, invenzioni, stranezze, stramberie di cui abbiamo già avuto modo di apprezzarne (!) illuminati (!) esempi. Questo scempio avverrà perché il Ministero della Salute ha scelto fra i propri interlocutori privilegiati professionisti che operano in tutt'altro ramo che quello funerario, fra i quali taluni che hanno già pensato di porre le basi perché nel prossimo futuro Regioni e Comuni dovrebbero rivolgersi al suo già costituito Centro Studi per ottenere lumi ed assistenza nella compilazione dei propri regolamenti territoriali. È come se il Ministero della Giustizia avesse chiamato un valente architetto per predisporre una riforma dei codici civile o penale. Di fianco a questo nuovo tipo di "esperto" c'è la potente organizzazione rappresentativa delle aziende municipalizzate, la Sefit, promanazione della Cispel, che presso i Ministeri competenti fa la voce grossa per non perdere i poteri, i privilegi e le prebende attraverso cui continuare ad alimentare il flusso clientelare ed elettoralistico, a volte anche quello nepotistico. In pratica siamo alla mercé di tecnocrati che nulla hanno a che spartire con la nostra vocazione imprenditoriale. Mentre le nostre organizzazioni sindacali non muovono un dito per scacciare questi nuovi mercanti dal tempio e far capire in modo chiaro ed inequivocabile al Ministero chi sono o dovrebbero essere i suoi interlocutori naturali.

Un medico-romanziere britannico scrisse il celeberrimo "E le stelle stanno a guardare". Io, che mi diverto a plagiare i grandi, ho preso a prestito il titolo da Cronin per sfruttarne il significato a mio uso e consumo. Ma credo ad uso e consumo della categoria perché è questa che subirà le conseguenze nocive di quello che sta accadendo oggi, è su di essa che ricadrà la colpa delle associazioni settoriali di non avere la capacità di protestare presso i Ministeri, perché siano esse e soltanto esse le artefici del futuro delle aziende rappresentate e - come le stelle incastonate nel firmamento - stanno solo a guardare senza intervenire fattivamente. Oggi non è più tempo di restare a guardare, è tempo di protestare in modo vibrato quando è necessario. E si può protestare in tanti modi diversi. Comprando pagine di grandi quotidiani nazionali attraverso le quali esporre sinteticamente le proprie tesi e ragioni, così come si possono organizzare sfilate silenziose di centinaia o di migliaia di carri funebri (i Cobas del latte fecero di peggio e con la loro mucca Carolina misero a ferro e fuoco l'Italia cospargendo di letame le forze di polizia, fino al blocco di strade e di aeroporti). Ma si possono radunare migliaia di persone nelle vie adiacenti il Ministero che, munite di tamburi e fischietti, rumorosamente facciano sentire il loro dissenso, così come si possono convogliare impresari e collaboratori con famiglie al seguito in una grande piazza romana per chiedere a voce alta il riscatto della propria competenza che allo stato è oggetto di usurpazione.

Una indebita usurpazione, destinata a produrre effetti deleteri per il futuro se la nostra reazione non sarà immediata, convinta ed inflessibile. Ma soprattutto per reclamare una legge chiara e univoca, una sola legge nazionale, priva di appendici localistiche dispersive e dannose, che unisca e non divida le Regioni, i Comuni e gli impresari chiamati ad assolvere a compiti gravosi e delicati da svolgere sempre e solo laddove alberga il dolore, quello vero, autentico, immenso, inconsolabile. Quello che non può essere codificato, che non può essere regolamentato, che non può essere ingabbiato da schemi e normative di sapore tecno-burocratico, ma deve essere percepito, condiviso assecondato da chi, avendo anche la capacità di interpretare le sfumature individuali, diventa l'indiscusso depositario della fiducia di chi soffre nel triste frangente della grave perdita subita.
 
Alfonso De Santis
Ho ricevuto da un Comune limitrofo uno schema di concessione/contratto per il servizio di trasporto funebre.

Il Comune di Medolla, paese di circa cinquemila abitanti in provincia di Modena, ha deliberato nel Consiglio Comunale del 20 dicembre 2002 un regolamento atto a liberalizzare il servizio a tutte le imprese funebri accreditate e del quale riassumo qui di seguito i punti essenziali:

o per ogni trasporto funebre è dovuto al Comune un diritto fisso pari a Ä 77,47;

o il concessionario, in occasione di cortei funebri, garantisce la presenza di personale addetto alla vigilanza;

o il concessionario si obbliga, a favore di persone indigenti segnalate dall'Amministrazione, a svolgere un servizio funebre completo e gratuito di cassa, tumulazione e trasporto;

o il concessionario si obbliga a praticare nell'ambito del territorio comunale il prezzo complessivo di

Ä 1.549,37 per ogni servizio funebre completo di trasporto e cassa, di tipo economico;

o a carico del concessionario sono tutte le spese di contratto, registrazione, carta bollata, cancelleria, tutte le spese nessuna esclusa, i rischi e quant'altro derivi dal servizio, esonerando totalmente il Comune al riguardo, anche sotto il profilo assicurativo e fiscale.

Questi sono solo alcuni punti riportati fedelmente dal regolamento e che mi permettono di entrare nell'argomento.

È mai possibile che nel 2003 esistano ancora amministrazioni che deliberano norme così vessatorie, ed imposizioni di tariffe, alla "carità obbligatoria"?

La sola scelta che rimane a noi impresari è unire le nostre forze per ribellarci a simili imposizioni.

Anni fa la mia provincia contava parecchi soci iscritti alla Feniof, ci credevamo in tanti: era la nostra federazione, la nostra spalla, la nostra guida, la sola "mamma" che ci proteggeva dai soprusi perpetrati da amministrazioni il cui unico scopo era quello di "mungere" prima l'impresario locale e poi i cittadini.

Ora che tanto danno alla categoria ha compiuto la liberalizzazione indiscriminata delle licenze, i cui effetti negativi saranno letali per tante piccole aziende operanti in piccoli paesi, mi chiedo spesso perché la Feniof, anche a costo di perdere soci per strada, non ha lavorato sulla base che regola il rilascio delle licenze alzando la voce nelle stanze del potere e sopratutto consultando gli associati con un referendum o quant'altro. Cosa potranno fare ora tutte quelle associazioni regionali, appoggiate e sponsorizzate dalla Feniof, le cui quote d'entrata fra l'altro, ammontano a duemila euro?

Al momento vedo ciò che esisteva vent'anni fa quando ho iniziato l'attività: i comuni continuano ad imporre privative, lacci e lacciuoli degni di un paese incivile, alla faccia della liberalizzazione e del progresso.

Caro Alfonso, "impresario con la i maiuscola", è Lei che ispira tenerezza, con il Suo disincanto e con la Sua spontaneità, ma soprattutto con la Sua "verità", come vede sempre attuale, mai fuori moda. In pochi possono fregiarsi del classico "io l'avevo detto ...". Lei, del mondo funerario, fa parte di diritto.

Concludo con un sogno interrogativo, forse anche provocatorio, che mi assale ogni volta che termino la lettura de "il pensiero di...": vista l'incapacità dei vari enti preposti, perché non fare scrivere a Lei il nuovo Regolamento di Polizia Mortuaria?

Se il suo "futuro" lo sente stretto e su di esso non fa più affidamento, ci "regali" finalmente la nostra "Bibbia" sulla quale poter credere per uno sviluppo e per un futuro più sereno dell'imprenditoria funebre italiana.
Rocco Paltrinieri


Un buon operatore funebre deve avere dialettica al primo contatto con i dolenti, deve essere persona curata fisicamente e professionalmente, deve sapersi presentare bene, deve saper mettere a proprio agio i familiari del defunto, ché non si sentano accanto un becchino, ma una persona preparata e rispettosa, capace di illustrare loro come sbrigare tutte le pratiche che occorrono nella circostanza.

Con professionalità deve saper sistemare la salma e provvedere alla composizione della stessa nel cofano accessoriato con cura e non fare distinzioni di servizio fra funerali di varie categorie. Deve avere sempre risposte adeguate ad ogni domanda della famiglia, saper provvedere a tutto quello che occorre per una buona prestazione funebre, avere inventiva per migliorare il servizio.

La figura del cerimoniere, di cui si parla tanto, è importantissima, specialmente ora che nel nostro paese riscontriamo l'avvento di nuove etnie e religioni diverse e non sappiamo ancora bene come comportarci.

Non tutti gli operatori funebri, soprattutto quelli che non vendono servizi funebri ma che "fanno un morto in più", condivideranno questi concetti, ma se nel prossimo futuro prenderanno piede le Case Funerarie e gli Operatori, mutando la loro mentalità, formeranno dei consorzi, allora qualcosa di concreto avverrà nei servizi funebri del nostro paese.
Paolo Vallini


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